Dove le milizie Houthi si impongono diminuisce la libertà delle donne. Incursioni nei ristoranti, nelle università, negli ospedali, nei luoghi pubblici della capitale yemenita Sana'a.
Chi vive sotto il loro controllo e ha occhi per vedere e orecchie per sentire non si è stupito affatto della definizione degli Houthi – i ribelli del Nord dello Yemen che hanno in mano la capitale Sana’a dal 2014 – come «gruppo terrorista».
Si tratta dell’ultimo atto dell’amministrazione statunitense di Donald Trump in politica estera, così come il primo, nel 2016, fu l’attacco con drone nella provincia a maggioranza qaedista di Abyan. La dichiarazione è stata accolta dalle ong e dalle organizzazioni internazionali come «sconsiderata e distruttiva» perché renderebbe impossibili le forniture di aiuti, le relazioni diplomatiche e le transazioni commerciali con un governo auto-proclamato che, se prima era tollerato, adesso diventa un bersaglio internazionale.
Eppure ci sarebbe da chiedersi se questa risoluzione non sarebbe stato opportuno prenderla anche prima, quando fin dall’inizio della guerra – e con più evidenza dall’assassinio dell’ex presidente Al Abdullah Saleh che nel 2015 era stato invitato a salire sul loro carro – la milizia sciita aveva iniziato ad imporre alla popolazione delle misure impensabili per la società yemenita e non dissimili ad azioni imposte dalle milizie qaediste a Mukalla, in anni precedenti, o dal sedicente Stato Islamico a Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria).
Adesso, nelle aree da loro controllate, si è scatenata la caccia alle donne: si parla di irruzioni nei ristoranti per individuare le impiegate e arrestare i titolari che si rifiutino di cooperare; di misure intraprese per eliminare la presenza delle donne dallo spazio pubblico; di muri separatori di cemento costruiti nelle aule dell’università di Sana’a, mista da cinquant’anni, per dividere gli studenti per sessi. Infine, è appena stata vietata la distribuzione di contraccettivi in farmacie, ambulatori, ospedali pubblici e privati a qualsiasi donna che li richieda, a meno che non arrivi accompagnata dal marito o non presenti una richiesta scritta dal marito stesso.
Gli Houthi affermano che la presenza di donne dei luoghi pubblici contraddice le loro credenze religiose e, riguardo ai contraccettivi negati, in Yemen molto diffusi e sempre più richiesti dal 2011 in poi, non è difficile immaginare la necessità di favorire un incremento della popolazione per assicurarsi futuri combattenti. Le donne locali, soprattutto le attiviste impegnate nella difesa delle donne, parlano adesso pubblicamente di comportamenti «simili a quelli dello Stato islamico». Proprio così sono considerati i due raid della settimana scorsa nei ristoranti della capitale, locali che già impiegano donne unicamente nella zona destinata alle famiglie, separata dall’area maschile. Le lavoratrici sono state cacciate immediatamente, e i proprietari posti in stato di arresto, con minaccia di chiusura definitiva dell’attività se non avessero cooperato. Il secondo raid è stato ancora più indicativo degli estremi raggiunti dal gruppo: le milizie, sempre la scorsa settimana, hanno fatto irruzione nei negozi di abbigliamento femminile, distruggendo e confiscando manichini (di donne, ovviamente) perché la visione di questi seni di plastica sarebbe troppo «eccitante».
La notizia, riferita da fonti a Sana’a anche a chi scrive, è poi detonata sul quotidiano panarabo Ashraq al-Awsat ma tutto il complesso degli avvenimenti è stato denunciato da dozzine di attivisti yemeniti che hanno condannato la milizia per aver limitato le libertà delle donne, soprattutto perché le condizioni di vita peggiorano sempre più a causa del conflitto in corso, nonché della pandemia da coronavirus. Su Twitter l’ex ministro per i Diritti umani dello Yemen, Hooria Mashhour scrive: «È scioccante che le ragazze vengano licenziate intenzionalmente a Sana’a dai luoghi di lavoro a causa delle nuove regole degli Houthi per escludere le donne dalla vita pubblica. Come queste donne possono sfamare le loro famiglie, adesso, in un momento in cui le opportunità di lavoro sono diminuite, e visto che esse stesse sono diventate capofamiglia?»
Non va meglio nel settore sanitario. Il 28 gennaio scorso, l’ex consigliere dell’ambasciata yemenita a Londra Baraa Shiban ha condiviso le circolari emesse dal ministro della Salute Houthi Taha al-Mutawakel alle strutture sanitarie nelle aree sotto il loro controllo. Nei testi si dice esplicitamente che le donne non possono acquistare contraccettivi senza il consenso dei loro mariti. Deve essere esibita una licenza di matrimonio, e un’autorizzazione scritta se il marito non può essere presente: la sua approvazione deve essere data prima dell’emissione di qualsiasi contraccettivo.
Il giornalista yemenita Ghamdan al-Yosifi ha criticato la decisione su Twitter: «Gli Houthi prendono decisioni senza considerare cosa ne deriverà: forse non sanno che alcuni medici somministrano pillole contraccettive alle donne – anche a donne non sposate – per curare gli squilibri ormonali e fermare alcune cisti nelle ovaie? I contraccettivi devono essere prescritti e somministrati sotto la supervisione di un medico, non di un marito!».
L’ultimo attacco al genere femminile si consuma nelle aule universitarie: l’immagine di muri di mattoni costruiti dentro le aule dell’università di Sana’a hanno fatto il giro delle reti sociali arrivando ad essere condivise – ancora una volta su Twitter – con un duro attacco agli Houthi, dal ministro dell’informazione yemenita Muammar al-Iryani che definisce le pratiche della milizia «terroristiche», «barbare», volte a «sopprimere la libertà e il ruolo delle donne».
Anche fuori dei campus non va meglio; da anni le giovani che si recano in università con hijab colorati, come era uso comune prima del 2015, invece del niqab nero, hanno dichiarato di avere optato anch’esse per il niqab, essendo oggetto delle molestie delle guardie Houthi che si trovano all’ingresso dell’università. Eppure all’esterno delle aree controllate dagli Houthi qualcosa si muove. Il Movimento femminista yemenita di donne espatriate in Canada, Stati Uniti ed Europa, fondato da Alaa Al-Eryani ha lanciato su Twitter una campagna per combattere le restrizioni Houthi sulle donne, da ciò che indossano, alla separazione dei sessi nelle scuole, al divieto di lavorare nei ristoranti e di acquisto contraccettivi senza l’approvazione dei mariti. «Le donne – dicono in un Tweet – stanno parlando». La campagna utilizza l’hashtag #voglioimiei diritti, in lingua inglese e araba (#IWantMyRights #اشتي_حقي).
Perché Diwan
La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.
Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.
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Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).
Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).
Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).