Quali effetti ha prodotto la pandemia da coronavirus Sars Cov-2 nella Striscia di Gaza? Un recente rapporto Unicef prende in considerazione le ricadute sui cittadini più piccoli.
Secondo il documento, si assiste a un aumento significativo del lavoro minorile, per via delle condizioni economiche sempre più precarie delle famiglie e della difficoltà degli allievi nel frequentare le lezioni a distanza (offerte dalle scuole chiuse per arginare i contagi) a causa delle frequenti interruzioni di corrente nelle case e dell’accesso limitato ai dispositivi elettronici. Cresce del 52 per cento la richiesta di servizi a sostegno dei minori impegnati in varie forme di lavoro.
Fragili, vulnerabili, esposti
Profonde sono anche le ripercussioni sul benessere psicologico di bambini e ragazzi, evidenziate da un incremento del 56 per cento di consulenze e servizi presso gli specialisti di salute mentale. Nei primi sette mesi del 2020 si è riscontra anche un aumento dei casi di violenza e abusi tra le mura domestiche ai danni di minori, soprattutto con disabilità: sono stati 9.051, rispetto ai 6.477 registrati nello stesso arco di tempo nel 2019. Tra le ragazze c’è stata una brusca impennata dei tentativi di suicidio riportati: 38 tra gennaio e luglio (furono 5 nello stesso periodo del 2019).
Dunque i bambini di Gaza – cresciuti in un contesto di conflitto e fragilità già duramente provato – stanno pagando un prezzo molto alto durante la pandemia. Le cause sono molteplici e interconnesse.
Le restrizioni di movimento, l’accesso limitato ai servizi sanitari, uniti all’insicurezza a tutti i livelli (sociale, politico ed economico), perpetuano i cicli di tensione all’interno delle famiglie – da anni altamente stressate e confinate in spazi relativamente piccoli – e fanno crescere il rischio di violenze e abusi.
Sempre secondo l’Unicef c’è una categoria di minori che oggi nella Striscia soffrono più di altri: sono i detenuti. Il rapporto sottolinea da un lato la difficoltà nel reperire dati esaustivi (a causa del numero limitato di organizzazioni sul campo in grado di entrare in contatto diretto con questi giovanissimi), dall’altro l’estrema vulnerabilità di questi giovani. «Sono spesso esclusi dai servizi, in particolare dall’assistenza legale e dalla consulenza, dunque ulteriormente esposti ad abusi», viene sottolineato.
L’impegno di Caritas Jerusalem
«Il 20 per cento della popolazione della Striscia è costituito da bambini sotto i cinque anni. Anche prima della diffusione del Covid-19, soffrivano di malnutrizione cronica. Va considerato che il 75 per cento dei bambini sotto l’anno d’età è anemico. L’anemia è il risultato di una grave insicurezza alimentare: la malnutrizione riduce l’immunità dei piccoli, rendendoli vulnerabili all’infezione da Covid-19». Parte da qui il dottor Jehad Elhissi, consulente per Caritas Jerusalem, che abbiamo raggiunto a Gaza.
Il medico soggiunge che, secondo le stime ufficiali, a fine gennaio 16.548 bambini sono in quarantena nella Striscia perché almeno un membro della loro famiglia si è infettato. Tra gli effetti diretti della pandemia, il sanitario cita la perdita di uno dei genitori (spesso il principale portatore di reddito) e i casi in cui un familiare, toccato da complicazioni del virus, rimane disabile, complicando quindi ulteriormente gli equilibri familiari.
Le unità di assistenza domiciliare
Al dottor Elhissi chiediamo di raccontarci dell’ultimo progetto, avviato a inizio gennaio da Caritas Jerusalem (da maggio scorso attiva a Gaza in prima linea contro il virus) in collaborazione con il locale ministero della Salute. L’intervento si avvale di sette équipe mediche mobili. Ognuna è costituita da un medico, un infermiere e un autista, e può contare sul sostegno del personale del Centro sanitario Caritas. «Ci occupiamo – spiega il dottor Elhissi – dell’assistenza sanitaria domiciliare ai pazienti affetti da Covid-19, per alleviare la pressione sugli ospedali e arginare la diffusione del virus. Forniamo una copertura 24 ore su 24, sette giorni su sette. Operiamo in tutto il governatorato di Gaza, dove vive circa un terzo della popolazione (due milioni di persone distribuite su 360 chilometri quadrati e cinque governatorati – ndr). Talvolta rispondiamo alle chiamate anche da altri governatorati».
Le équipe visitano le case, valutano in che misura sia possibile tenere isolati i contagiati o indirizzano ai centri di quarantena del ministero della Salute, somministrano farmaci, misurano il livello di ossigenazione degli infetti e, dove necessario, procedono al ricovero negli ospedali. Nei casi di assistenza a famiglie non infette, forniscono kit igienici e facilitano la distribuzione dei tamponi.
«Il personale di queste équipe», conclude il dottor Elhissi, «lavora in prima linea in situazioni altamente a rischio. Grazie a una buona formazione e alla professionalità del personale stesso, finora per fortuna nessuno di noi si è contagiato».
Bagliori di speranza da Um Al Nasser
Un’altra voce che rappresenta un esempio virtuoso, arriva dal villaggio di Um Al Nasser, l’unica municipalità beduina di Gaza, nell’area settentrionale della Striscia, vicina al valico di Eretz. «L’area è in una buffer zone, una zona cuscinetto esposta a rischio costante di bombardamenti (israeliani – ndr) e con un passato di numerose demolizioni di edifici», spiega al telefono Francesca Forte, referente dell’ong Vento di Terra per le attività con i minori e le donne a Gaza. «La salute psicofisica dei bambini di quest’area è fortemente messa alla prova dal contesto di povertà, disoccupazione, crisi protratta e violenza strutturale alla quale si sono aggiunte le difficoltà della pandemia».
Nel villaggio è presente un unico centro in grado di offrire sostegno psicologico e sociale a madri e famiglie, insieme a servizi educativi: è il Centro femminile Zeina, una piccola ong locale che, grazie al supporto di Vento di Terra, ha distribuito kit igienico-sanitari per il contenimento del virus. Materiale molto prezioso per le famiglie più vulnerabili di Um Al Nasser.
A Zeina fa capo la scuola per l’infanzia Terra dei bambini. La coordinatrice Fatima Abu Rashed ci ha descritto gli ultimi mesi dal punto di vista dei piccoli: «La chiusura dell’asilo non è stata facile per la maggior parte dei bambini. Non erano preparati a restare a casa così improvvisamente. Nessuno era preparato a questa crisi. Per loro è stato arduo separarsi dai compagni e dalle maestre. Molte madri ci hanno riferito che spesso piangevano. Purtroppo restare a casa, qui, significa anche dover gestire la mancanza di risorse e materiali per attività domestiche formative».
La crisi sanitaria, però, «è stata anche l’occasione per nuovi stimoli e idee», sottolinea Fatima. Le insegnanti dell’asilo e le assistenti sociali di Zeina hanno elaborato un piccolo progetto – dal titolo Impariamo a casa – che ha coinvolto alcune madri della comunità «per sostenerle nell’elaborazione di attività educative a casa e accompagnarle verso la riapertura dell’asilo».
Piccoli segni di speranza, in attesa che la situazione – almeno in parte – migliori.