A due settimane e mezzo dall’inizio della campagna di vaccinazione, Israele può vantarsi di aver somministrato la prima dose del vaccino a 1,37 milioni di persone, ovvero più del 15 per cento della sua popolazione. Un traguardo, acclamato a livello internazionale, e reso possibile da una popolazione abbastanza ridotta (sono 9 milioni gli abitanti contro 60 milioni dell’Italia), oltre che dalle brevi distanze da percorrere per raggiungere un centro sanitario. Lo Stato ebraico sta persino spedendo lotti del vaccino Pfizer/BioNTech all’interno della Cisgiordania, ma le dosi vengono distribuite solo ai coloni ebrei e non ai circa 2,7 milioni di palestinesi che vivono intorno a loro e che dovranno per questo aspettare ancora diverse settimane.
Relativamente toccati meno dalla pandemia nella scorsa primavera, i Territori palestinesi stanno ora affrontando un’esplosione di casi positivi al coronavirus. In Cisgiordania ne sono stati registrati circa centomila e 1.100 decessi, mentre a Gaza un terzo dei tamponi è risultato positivo. Il numero di decessi correlati al coronavirus è raddoppiato in tre settimane, raggiungendo lo scorso 27 dicembre, più di 300 morti.
Mentre il mondo si lancia in una corsa alla vaccinazione che si preannuncia disuguale – le persone nei Paesi sviluppati sono le prime a essere vaccinate –, la situazione in Israele e nei Territori palestinesi offre un chiaro esempio di queste disuguaglianze.
Un obbligo internazionale
Le organizzazioni per i diritti umani ritengono che Israele abbia l’obbligo di provvedere ai bisogni sanitari delle popolazioni occupate. Amnesty International ha quindi chiesto a Israele, in un comunicato del 6 gennaio, di «agire immediatamente per garantire che i vaccini anticoronavirus siano equamente forniti ai palestinesi che vivono sotto occupazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza», sottoposta da più di un decennio al blocco israeliano. In realtà, è alle autorità palestinesi che gli accordi di pace di Oslo, firmati negli anni Novanta, assegnano la responsabilità di vaccinare la popolazione. Ma questi testi sono considerati obsoleti, perché non sono mai stati attuati da veri accordi di pace. L’Autorità palestinese in Cisgiordania, territorio occupato dal 1967, non ha richiesto pubblicamente l’assistenza di Israele per la fornitura di vaccini ed è improbabile che gli islamisti di Hamas, al potere nella Striscia di Gaza, si mettano formalmente in contatto con lo Stato ebraico sulla questione. Le due parti hanno combattuto tre guerre dal 2008.
Dispositivo Covax, un aiuto ai paesi più poveri
Il 4 gennaio il ministero della Salute palestinese ha dichiarato di aspettare una prima consegna di vaccini per la Cisgiordania e Gaza a febbraio, grazie al dispositivo Covax, istituito dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per venire in aiuto ai Paesi più poveri. «Non sappiamo esattamente quando i vaccini saranno disponibili per la distribuzione, perché molti potenziali vaccini sono in fase di studio e diversi studi clinici sono in corso», ha detto a France24 Gerald Rockenschaub, responsabile dell’Oms nei Territori palestinesi occupati.
Il problema principale resta quello della logistica. Le dosi del vaccino Pfizer-BioNtech devono essere conservate in condizioni di refrigerazione molto rigide, che non possono essere garantite nell’attuale situazione nella Striscia di Gaza. In Cisgiordania il vaccino potrà essere conservato solo in una struttura che si trova a Gerico. Condannate ad aspettare, sia Gaza che la Cisgiordania si destreggiano fra le restrizioni, mentre cercano di mantenere a galla la loro fragile economia.