Gli israeliani andranno alle urne, per la quarta volta in due anni, il prossimo 23 marzo. E il premier uscente, Benjamin Netanyahu, ora fa appello ai voti dei cittadini arabi, con una piroetta politica clamorosa rispetto al recente passato. Perché?
Israele è di nuovo in campagna elettorale: per chi se lo fosse perso, il governo Netanyahu-Gantz – varato a maggio per uscire dallo stallo dopo ben tre elezioni – è andato in frantumi in pochi mesi e a dicembre non è riuscito ad approvare il bilancio. Motivo per cui la Knesset (il parlamento monocamerale) è stata automaticamente sciolta e i cittadini israeliani andranno a votare per la quarta volta in due anni il prossimo 23 marzo.
Fin qui – verrebbe da dire – nulla di nuovo sotto il sole. Se non fosse per una cosa fino a ieri del tutto impensabile accaduta in questi giorni: il premier uscente Benjamin Netanyahu ha iniziato la sua nuova campagna elettorale da Nazaret, andando a cercare il voto degli arabi israeliani, che rappresentano circa un quinto della popolazione del Paese.
Chi ha un po’ di memoria ricorderà che negli ultimi anni il tema degli arabi discendenti da quanti non abbandonarono le loro case nel 1948 e restarono come minoranza con pieno diritto di cittadinanza nello Stato di Israele, è uno dei temi più caldi della politica israeliana.
Nel 2018 è stata approvata la contestata legge che definisce Israele come lo Stato-nazione degli ebrei, sostenuta da Netanyahu stesso. Mentre, come reazione a questo processo, i partiti arabi – tradizionalmente divisi e marginali alla Knesset – hanno dato vita alla Lista Araba Unita, che nelle ultime elezioni è arrivata a raccogliere addirittura 15 seggi sui 120 del parlamento israeliano. Oltre a tutto questo, poi, c’è il precedente pesante delle elezioni del 2015, quando Netanyahu stesso si rese protagonista di un gesto spregiudicato: a urne aperte dal suo profilo Facebook apparì in video lanciando l’allarme per gli «arabi che stanno votando a frotte», come se questo fosse un pericolo. Una pagina nera per la democrazia israeliana, ma elettoralmente efficace: grazie a una quota di voti dell’ultradestra ebraica mobilitati in quella maniera «re Bibi» uscì vincitore anche da quell’appuntamento elettorale.
La domanda, allora, sorge spontanea: con un curriculum del genere alle spalle, come fa Netanyahu ad andare a Nazaret a chiedere i voti agli arabi? Per chi lo conosce un po’, in realtà, la mossa è meno sorprendente di quanto sembri. Benjamin Netanyahu è sempre stato un politico spregiudicato, che ha costantemente messo la sua sopravvivenza al potere davanti a ogni altra cosa. Così oggi vede molto chiaramente che queste quarte elezioni saranno diverse dalle tre precedenti: cadendo nella trappola dell’alleanza con lui, l’antagonista di ieri – Benny Gantz – si è suicidato politicamente, ritrascinando nella sua crisi il centro-sinistra. Nemmeno la discesa in campo dell’ultimo laburista minimamente popolare – il sindaco di Tel Aviv Ron Huldai – sta scaldando gli animi.
Proprio per questo, però, per Netanyahu la sfida si sta facendo ancora più dura, perché l’antagonista stavolta è nel suo stesso campo: i voti di chi scende in piazza ogni settimana contro il premier a processo per corruzione, si stanno indirizzando verso Gideon Sa’ar, l’ex sfidante interno al Likud che ha deciso di uscire dal partito e correre da solo, giurando che non entrerà mai in un governo con Netanyahu. Sa’ar punta a fare sponda con un altro con il dente avvelenato contro il premier: Neftali Bennett, il leader del partito di ultra-destra più vicino ai coloni, lasciato fuori dal governo con Gantz.
Con questo panorama affollato a destra, allora, Netanyahu sta provando a sparigliare le carte con un triplo salto mortale: prova a corteggiare gli arabi. A Nazaret – in un grande classico della politica – ha assicurato che le parole delle elezioni del 2015 «sono state equivocate»; lui non ha proprio nulla contro gli arabi che votano (sottinteso: per lui). Oggi sbandiera gli accordi con gli Emirati Arabi e il Bahrein per dire: «Se ho trovato l’intesa con loro non posso trovarla con voi?». E incontra su Zoom i sindaci delle municipalità arabe, promettendo di impegnarsi nella lotta alla criminalità, che con una lunga catena di omicidi negli ultimi tempi è diventata il problema numero uno in queste città.
Pensa davvero di raccogliere voti Netanyahu a Nazaret? Qualcuno forse sì. Ma non è probabilmente questo il suo obiettivo principale. Gli interessa molto di più minare la fiducia nella Lista Araba Unita, che a queste elezioni arriva in grave crisi. Molti elettori arabi, infatti, contestano al suo leader Ayman Odeh l’assenza di risultati: «Possiamo anche mandare 15 deputati alla Knesset – è la tesi – ma nel momento della verità, Gantz non ha voluto allearsi con noi e non abbiamo ottenuto niente». Oltre a questa sfiducia, poi, sul tavolo c’è la fronda di Ra’am, l’ala della Lista Araba più vicina ai movimenti islamisti, che contesta apertamente il laico Odeh. Paradossalmente è proprio il leader di Ra’am, Mansour Abbas, l’esponente politico arabo israeliano che sta dando maggiore credito a Netanyahu; in nome del pragmatismo ma anche di una visione politica più vicina ai partiti religiosi ebraici che al centro-sinistra israeliano. Ed è ormai molto probabile che Ra’am corra da sola alle elezioni del 23 marzo.
Che vantaggio trarrebbe Netanyahu da questa divisione? I 15 seggi della Lista Araba Unita nelle elezioni del 2 marzo 2020 furono il frutto di un’affluenza molto alta degli elettori arabi ai seggi, dettata dalla fiducia di poter cambiare le cose. Un’affluenza bassa e con liste divise, al contrario, significherebbe automaticamente qualche seggio in più da spartirsi tra gli altri partiti. E il Likud spera di esserne il maggiore beneficiario. In un parlamento in cui i deputati sono solo 120 eletti con un sistema proporzionale puro anche 2 o 3 seggi in più possono diventare determinanti per la formazione del governo. E – come sempre – Netanyahu è disposto a tutto pur di conquistarli.
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Clicca qui per leggere un articolo di The Times of Israel sul tour elettorale di Netanyahu a Nazareth
Clicca qui per leggere un articolo di Al Monitor sulla crisi della Lista Araba Unita
Perché La Porta di Jaffa
A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.