L'anno appena concluso ha fatto registrare qualche delusione per le cittadine kuwaitiane e yemenite più istruite. Nei due Paesi sono scomparse deputate e ministre.
Il 2021 si apre malissimo per le donne di un paio di Paesi del Golfo, il Kuwait e lo Yemen dove, per la prima volta da molti anni, non ci saranno parlamentari di sesso femminile (in Kuwait) e ministre (in Yemen). La notizia è sorprendente, si direbbe, considerato che sia il Kuwait sia lo Yemen, rispetto alle monarchie confinanti, sono Paesi abbastanza noti per una classe dirigente che, da vent’anni a questa parte, ha saputo esprimere un buon numero di personalità femminili di rilievo nei gangli vitali della società, come i campi del diritto, dell’imprenditoria e della politica. Ma non ci si può stupire di questa inversione di tendenza, considerata l’influenza sempre più grande dei sauditi nell’area (benché proprio la monarchia dei Saud sbandieri nuove concessioni alla sua popolazione femminile).
Il primo in ordine di tempo ad invertire la rotta è stato il Kuwait. Dopo lo scorso autunno, quando otto donne (Fatima Al-Sagheer, Fatima Al-Kandari, Sanabel Al-Houti, Fatima Al-Farhan, Bashair Shah, Bashaer Al-Rakdan, Rawaat Al-Tabtabae e Lulwa Al-Ghanim) sono state promosse da pubblici ministeri a giudici con l’approvazione della Corte Suprema – la prima volta in tutta la storia del regno – il dibattito socio-culturale sull’emancipazione femminile si è fatto più incandescente che mai. Se, da una parte, gli attivisti hanno cantato vittoria, dopo anni di lobbismo, iniziato nel 2005 con l’ottenimento del suffragio universale, e già culminato nel 2014 con la nomina di 20 procuratrici donne (l’avvocata Athraa al Refaie ha dichiarato che «si aspettava questa decisione da molto tempo, visto che le donne kuwaitiane hanno intrapreso un percorso incrollabile per entrare a far parte della magistratura, dopo avere raggiunto posizioni ragguardevoli nella legislatura, da parlamentare a ministro»), dall’altra sono riemerse posizioni estremamente conservatrici. Come quella di Mohammad Haif, segretario generale del blocco salafita (Thawabit al Umma Salafi) che ha affermato su Twitter che la nomina di donne nella magistratura «non è commisurata alla composizione o alla natura delle donne, né è compatibile con la vera sharia». La sua battaglia in Parlamento e alla Corte Suprema per bloccare le nomine è fallita. Gli è riuscito, invece, di ottenere la reazione di molte componenti conservatrici della società, compresi illustratori e vignettisti come Mohammad Sharaf e Tareq Alkudari, che si sono divertiti a ritrarre ipotetiche sentenze in tribunale ai danni degli uomini, al punto che le elezioni parlamentari del 5 dicembre scorso sono state un fallimento totale per le candidate donne: erano ben 33, ma nessuna è stata eletta. Il risultato è in controtendenza con lo sforzo espresso da un gruppo di donne che nel settembre scorso ha fondato la lista Mudhavi, una piattaforma on line che mirava ad aumentare il numero delle candidate donne e a metterle in contatto con gli elettori. Quindici anni fa sette donne erano state elette in Parlamento, mentre nel 2016, nonostante la presenza di 15 candidate, era stata eletta solo Safaa al Hashem, ricandidata anche nel 2020. La maggior parte dei seggi è andata a candidati islamisti maschi.
Non va meglio in Yemen dove il governo lealista del presidente Abdrabbuh Mansour Hadi ha dovuto procedere a un rimpasto, dopo che il Consiglio di Cooperazione del Golfo presieduto dai sauditi ha accettato la partecipazione del Consiglio di Transizione del Sud, ossia dei separatisti di Aden, al governo. Il rimpasto è avvenuto a Riyadh, in Arabia Saudita, dove il presidente Hadi risiede dall’inizio della guerra, nel 2015. Per la prima volta, dopo vent’anni, non è stata nominata alcuna ministra, nonostante che lo Yemen abbia delle donne brillanti in politica.
La reazione delle yemenite non si è fatta attendere. Più di cento donne, leader in diversi settori – compresa il premio Nobel per la pace (2011) Tawakool Karman – hanno inviato un messaggio al nuovo esecutivo, denunciando una scelta che va contro i principi contenuti nella Conferenza di Dialogo Nazionale, istituita in Yemen nel 2011, dopo la rivoluzione. Le intellettuali sostengono che l’esclusione delle donne dalle rappresentanze di governo avrà un effetto inevitabile sul prossimo processo di pace e si appellano ai principi internazionali, compresa la risoluzione delle Nazioni Unite 1325, firmata sia dal governo Hadi che dagli oppositori – i ribelli Houthi del Nord – che raccomanda l’inclusione delle donne in tutti i livelli decisionali e nelle negoziazioni finalizzate al processo di pace. Nella città di Taiz, in Yemen, un centinaio di donne ha organizzato un sit-in di protesta nei confronti del nuovo governo e della sua decisione, definita «inaccettabile».
Perché Diwan
La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.
Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.
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Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).
Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).
Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).