Ha più di un significato simbolico l'albero di Natale allestito nel parco di al-Zaura, nella capitale irachena. Le decisioni che si impongono alla politica e alla pastorale della Chiesa.
A Baghdad ritorna a campeggiare l’albero di Natale, in un clima del tutto problematico per il Paese. L’albero è il più grande e alto di tutto l’Iraq ed è stato allestito nel parco di al-Zaura della capitale, in una delle zone più trendy di Utayfjia, nel distretto di Karkh, a ovest delle rive del Tigri. L’area – il viale 14 luglio, dove è basato anche un famoso club di calcio che porta lo stesso nome – è considerata una zona di divertimento per famiglie e per giovani. Con i suoi ristoranti, centri commerciali, una grande ruota panoramica, giostre e un piccolo zoo è divenuta sempre più popolare negli ultimi quattro anni.
L’albero, per decisione delle autorità, è stato allestito per celebrare il Natale, ma anche per ricordare l’anniversario dei tre anni dalla sconfitta del gruppo terroristico dello Stato Islamico. Questo simbolo natalizio, però, ha anche un significato «politico» in senso lato. La comunità cristiana irachena è costantemente diminuita negli anni, a seguito dei conflitti interni ed esteri avvenuti durante la dittatura di Saddam Hussein ed è diminuita ancora successivamente, durante l’occupazione americana e la crescente insicurezza nel Paese, alla quale ha contribuito anche l’ascesa di varie milizie estremiste di diversa estrazione, tanto sunnite quanto sciite.
Negli ultimi anni, tra il 2013 e il 2016, l’emigrazione dei cristiani ha superato il 90 per cento, soprattutto dalle zone del Nord, nei governatorati di Ninive e Mosul, che continuavano ad ospitare delle nutrite comunità di cristiani caldei e di assiri. Adesso che la ricostruzione in queste aree è in corso, dopo la sconfitta dello Stato Islamico, si sta molto discutendo dell’opportunità del loro ritorno. In merito si è pronunciato anche il cardinale Louis Raphael Sako, patriarca della Chiesa caldea. Da Baghdad ha affermato che il ripopolamento di queste aree deve essere deciso di concerto con le autorità nazionali, ma che deve essere permesso anche dalla popolazione locale di fede islamica, affinché siano garantite coesistenza religiosa, protezione e rispetto reciproco.
Anche per questa ragione la visita di papa Francesco, prevista per il prossimo marzo, assume un valore e un significato socio-politico del tutto eccezionale, di cui le autorità nazionali irachene stanno valutando le opportunità. L’albero di Natale che campeggia nel parco di al-Zaura, dunque, è tutt’altro che una decorazione o un’attrazione per famiglie, ma un segnale di riconciliazione e di opportunità politica, in un Paese che deve comunque ancora fare i conti con centinaia di sparizioni forzate di giovani attivisti locali, tra Baghdad e Bassora, sparizioni che spesso si concludono con brutali esecuzioni. In questi casi, l’obiettivo delle rappresaglie sono iracheni musulmani giovani, che conducono uno stile di vita laico e chiedono diritti fondamentali, soprattutto politici e di espressione e che sono considerati, in particolare dalle milizie sciite Hashd al-Shabi, nemici dell’integrità politica, della morale islamica, e vengono accusati di essere spie dell’Occidente.
L’ultimo scomparso in ordine di tempo è il giovane Arshad al-Fakhry, dj e noto organizzatore di party autorizzati negli alberghi di Baghdad, prelevato nella notte di due settimane fa da uomini armati all’albergo Ishtar. Di lui non si sa nulla, mentre le organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani hanno reso noto il caso e, insieme agli avvocati della famiglia, stanno facendo pressione nei confronti del governo iracheno affinché intercetti i responsabili e consenta una mediazione per il rilascio.
Perché Diwan
La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.
Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.
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Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).
Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).
Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).