Anche in tempo di pandemia prosegue alle porte di Gerusalemme il lavoro del Centro di conservazione architettonica fondato dalla scrittrice, e architetto, Suad Amiry. A tutela del patrimonio culturale palestinese.
«Ci è voluta un’epidemia mondiale per capire che la natura, la campagna e i villaggi sono gli spazi più adeguati e sani in cui vivere. Non le “scatole di cemento” delle città. Considerando le risorse limitate del pianeta, il riscaldamento globale e l’urgente necessità di riciclo, la conservazione e il riuso degli edifici storici sembrano essere l’unica cosa saggia da fare. La Palestina non è un Paese ricco, con giacimenti di petrolio o gas. La sua ricchezza è la storia e il patrimonio culturale. La salute, l’istruzione e la cultura (incluso il patrimonio architettonico) sono i settori in cui la maggior parte del budget di un Paese dovrebbe essere speso, se vogliamo un mondo giusto e sano».
Parte da qui Suad Amiry, architetto e scrittrice (celebre in Italia il romanzo Sharon e mia suocera, tradotto e pubblicato, in prima edizione, nel 2003, cui ha fatto seguito, tra gli altri, Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea, uscito nel giugno 2020), cui abbiamo chiesto di introdurci alle strategie che il Centro per la conservazione architettonica Riwaq – l’organizzazione non governativa da lei fondata a Ramallah nel 1991 e per la quale oggi si occupa principalmente di raccolta fondi e sviluppo di relazioni e contatti – sta mettendo in campo per affrontare la difficile situazione attuale.
Il tesoro in pericolo
Riwaq, di cui ci siamo già occupati su questa testata anni fa, si dedica a tutelare e riportare in vita – coinvolgendo le comunità locali – edifici e centri storici nei Territori occupati. Dalla sua fondazione ha restaurato circa 130 palazzi in un’ottantina di villaggi e città della Cisgiordania e di Gaza. Ne fanno parte una quindicina di membri, perlopiù giovani sui 30 anni e per metà donne. Sono architetti, restauratori, pianificatori, ingegneri civili ed esperti in tema di attività comunitarie e culturali.
L’emergenza sanitaria – che, com’è noto, in Palestina ha messo in ginocchio tutti i settori legati al turismo e alla cultura – sta rendendo ancora più fragile il patrimonio storico, come conferma Shatha Safi, architetto e attuale direttrice di Riwaq. «La riduzione delle risorse disponibili da parte dei donatori a causa del cambiamento di priorità da un lato, e la mancanza di tutela legale del patrimonio dall’altro, hanno reso ancora più impegnativo lavorare in questo settore. Il nostro patrimonio culturale è in pericolo: stiamo perdendo sempre più edifici e siti significativi».
Una risorsa economica
Durante i lockdown dei mesi passati alcuni progetti di restauro e conservazione «preventiva d’emergenza» sono stati interrotti, dando spazio a ulteriori minacce di deterioramento delle architetture e lasciando, in qualche caso, qualche famiglia priva dell’utilizzo dei propri spazi.
«In quella fase la nostra attenzione si è concentrata sulla manodopera che ha perso il lavoro ed è rimasta senza reddito», spiega Shatha. È stata avviata quindi una campagna per sostenere 31 lavoratori e le loro famiglie per due mesi, fino a quando non sono stati in grado di accedere nuovamente ai cantieri.
Poi si è cercato di alzare lo sguardo oltre l’emergenza, per trasformare il patrimonio culturale in una risorsa generatrice di reddito. Riwaq ha così recentemente investito nel restauro della villa al Huqqiyeh nel villaggio di Qalandiya, tra Gerusalemme e Ramallah. Un intervento che s’inscrive in un progetto più vasto, denominato Life Jacket Project. The Rehabilitation and Development of Rural Jerusalem (letteralmente, «Progetto Giubbotto di salvataggio. La riabilitazione e lo sviluppo della Gerusalemme rurale»).
«Il progetto tenta di creare un ciclo che parte dalla conservazione degli edifici storici, per poi darli in locazione a organizzazioni locali e piccole imprese», racconta Shatha. «ll ricavato dell’affitto è dedicato a un fondo patrimoniale che mira al restauro di altre architetture, così che il ciclo possa andare avanti. L’idea è quella di dipendere sempre meno dalle donazioni, legate alle congiunture sociali e politiche, e arrivare a una certa autonomia economica».
Il coinvolgimento delle comunità locali
L’approccio adottato considera la Gerusalemme rurale un contesto unico, non un gruppo di singoli villaggi. Un contesto urbano dotato di relazioni storiche che s’intrecciano da un lato tra i vari villaggi, dall’altro con la grande città di Gerusalemme. Il piano, continua Shatha, «mira a rafforzare la presenza palestinese e a resistere ai tentativi di occupazione, frammentazione e sfollamento, che puntano a isolare Gerusalemme dal suo ambiente popolare e naturale, cioè appunto la Gerusalemme rurale».
Dato che nei Territori palestinesi la maggior parte degli edifici storici è di proprietà privata, un ruolo chiave è affidato alle comunità locali – in quanto prime custodi del patrimonio – e alle relazioni che tra queste s’instaurano.
«Cerchiamo di lavorare il più possibile anche con le scuole, le organizzazioni locali e i membri delle comunità rurali», precisa Shatha. «Trasmettiamo le nostre conoscenze, che si basano su ricerche, documenti storici e sulla tradizione orale. Stiamo preparando infine contenuti e materiali educativi da far rientrare nel programma scolastico palestinese».
Un vero «giubbotto di salvataggio» per tutelare un patrimonio antico e ricco di valore storico e umano.