La Palestina si incammina verso la fine di un anno tribolato con più domande che risposte. Un 2020 che ha visto un ulteriore arretramento della lotta per l’autodeterminazione, costellato di iniziative altrui che l’hanno sospinta sempre più all’angolo. Su tutti primeggiano gli Accordi di Abramo, la normalizzazione dei rapporti tra Israele, Bahrein ed Emirati Arabi (sulla cui scia si sono messi più tardi anche Sudan e Marocco) giunti pochi mesi dopo la presentazione ufficiale dell’«Accordo del secolo» trumpiano, luce verde al progetto israeliano di annessione di ampie porzioni della Cisgiordania occupata dal 1967.
Se quel progetto è al momento congelato, la colonizzazione israeliana continua (lo dimostrano gli ultimi annunci di ampliamento di colonie a Gerusalemme est). Eppure la vittoria del democratico Joe Biden alle presidenziali Usa ha riacceso flebili entusiasmi a Ramallah, ai vertici dell’Autorità Nazionale Palestinese, che ha già ripristinato la cooperazione alla sicurezza con Israele. Come se nulla fosse successo.
Abu Mazen, manovre per la successione
È in tale contesto che a metà novembre ha festeggiato i suoi 85 anni il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Mahmoud Abbas (alias Abu Mazen). Intanto dentro Fatah – il suo partito – e dentro l’Anp prosegue incessante e affatto invisibile la lotta per la successione. I nomi che girano sono specchio delle anime di un partito spaccato, da tempo incapace di cogliere gli umori della sua base. Tra chi muove i fili spiccano Mohammed Dahlan, ex capo della sicurezza a Gaza, scappato in esilio dorato nel Golfo e tra i fautori (dietro le quinte) della normalizzazione tra Emirati e Israele; Majed Faraj, attuale capo dei servizi palestinesi, poco noto all’estero, ma potentissimo in patria; e Jibril Rajoub, anche lui ex capo del mukhabarat, nemico storico di Dahlan, che pur di fermarne l’avanzata a inizio anno tirò fuori dal cappello il nome indicibile: Marwan Barghouti, ribattezzato «il Mandela palestinese», condannato per terrorismo a cinque ergastoli dai tribunali israeliani e detenuto nei penitenziari dello Stato ebraico.
La scomparsa di Saeb Erekat
«Si deve partire da cosa significa per il futuro dell’Autorità il ritorno della cooperazione alla sicurezza con Israele nel contesto della normalizzazione regionale – ci spiega Tariq Dana, analista palestinese –. La normalizzazione intende avere un’influenza sui Territori: gli Emirati sponsorizzano Dahlan. È tramite lui che vogliono farsi largo a Ramallah, ma non avrà vita facile: dentro Fatah c’è un’opposizione forte, e rivali storici come Rajoub. Quel che abbiamo capito, però, dall’esperienza dell’Anp è che c’è sempre spazio per il compromesso interno. Abu Mazen ne è la prova: nessuno lo immaginava presidente».
«Con la morte di Saeb Erekat, capo negoziatore e segretario generale dell’Olp (che Covid-19 si è portato via il 10 novembre scorso – ndr), la lotta interna ha accelerato – ci spiega Alaa Tartir, direttore programmatico del think tank Al-Shabaka –. Gli attori chiave dentro l’Anp spingono perché venga sostituito da due persone per i due incarichi. Non perché l’Anp tenga alla buona governance, ma per soddisfare i funzionari più potenti e per rispondere alle dinamiche di potere dentro Fatah. Non sorprenderebbe se il nuovo capo negoziatore emerga dal ristretto circolo di Abbas, dai suoi consiglieri. In tutto ciò, la base di Fatah non è in alcun modo coinvolta. Il partito è un club esclusivo, una delle ragioni per cui il sistema politico palestinese non è né inclusivo né legittimato».
Tattiche vecchie, strategie obsolete
L’opinione condivisa di analisti e cittadini è che il governo si muova su un piano altro, lontano dalla base e incapace di definire una strategia nazionale efficace. «L’attuale leadership palestinese è ossessionata dall’idea di statualità, dalla fallita soluzione a due Stati che vede come unico paradigma accettabile, in linea con il consenso internazionale – aggiunge Tartir –. E crede che la cooperazione con l’occupante sia una dottrina sacra. Manca di una visione e non riesce a immaginare un futuro radicalmente differente, è incapace di muoversi oltre tattiche vecchie e strategie obsolete. È politicamente in bancarotta. Per questo la lotta palestinese per la libertà, la giustizia e l’eguaglianza è in profonda crisi».
A corto di democrazia
Una realtà a cui si aggiunge, spiega Dana, «l’assenza di potere reale, perché è Israele a decidere» e «la natura di Stato di polizia»: «Nei Territori non è solo presa di mira l’attività politica alternativa ma anche chi chiede diritti sociali ed economici, i sindacati, i lavoratori. Non esiste più nulla. Anche solo scrivere un post di critica sui social diventa motivo di arresto».
La repressione interna ha effetti concreti sull’emersione di leader alternativi, soffocati dal doppio controllo (Israele e Anp) e dalla mancanza di spazi potabili di dibattito: «Israele e Anp sono meccanismi di potere che uccidono subito qualsiasi movimento possibile – aggiunge Dana –. Negli ultimi 15 anni qualsiasi figura, movimento, gruppo di attivisti emerso in Palestina è stato fermato. A ciò si aggiunga la frammentazione geografica dovuta all’occupazione».
Dalla base un dinamismo senza sbocchi
«C’è sempre un dinamismo in corso al livello della base per costruire una leadership che sappia resistere alle strutture multi-livello di oppressione e repressione – conclude Tartir – Ma questi leader locali e di comunità, che siano o meno associati ai partiti tradizionali, non hanno un impatto su politiche o strategie. Ciò è dovuto a radicate strutture di autoritarismo che godono di strumenti volti alla frammentazione del popolo palestinese».
Con una speranza all’orizzonte, i giovani: «Una nuova e diversa generazione palestinese di leader sta emergendo con il suo bagaglio di visioni, obiettivi e strumenti nuovi. È una fonte di speranza ed è lì che i palestinesi dovrebbero investire il loro tempo e le loro energie».