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Hanno gambe gli Accordi di Abramo

Giorgio Bernardelli
12 ottobre 2020
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Alcune notizie di questi ultimi giorni, a un mese dalla firma degli Accordi di Abramo, ci dicono che è sbagliato sottovalutare la portata di quell'evento, molto più indipendente di quanto sembri dall'esito della corsa alla Casa Bianca.


Sono passati ormai due mesi dall’annuncio dell’intesa tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti sulla normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra i due Stati. Un mese fa – durante la cerimonia della firma ufficiale alla Casa Bianca degli Accordi di Abramo – a questa partita si è aggiunto anche il Bahrein, un altro Paese del Golfo. Archiviata la prima ondata di reazioni opposte – «lo storico accordo che cambia il paradigma della pace in Medio Oriente», «la pugnalata nella schiena ai palestinesi in nome dell’alleanza contro Teheran» – i riflettori del mondo si sono tendenzialmente spenti su questo percorso, in attesa di capire se uno dei protagonisti principali della vicenda – Donald Trump – lo sarà ancora di qui a qualche mese.

Eppure la situazione non è affatto ferma. E proprio alcune notizie di questi ultimi giorni confermano che è sbagliato sottovalutare la portata di questo passaggio, molto più indipendente di quanto sembri rispetto all’esito della corsa alla Casa Bianca. Il 6 ottobre c’è stato infatti un ulteriore gesto simbolico molto significativo: i ministri degli Esteri di Israele e degli Emirati Arabi Uniti si sono incontrati a Berlino al Memoriale della Shoah, con lo sheikh Abdullah bin Zayed Al Nahyan, il ministro degli Esteri di Abu Dhabi, che ha lasciato scritto in inglese e in arabo sul registro dei visitatori le fatidiche parole «Mai più». L’incontro ha in qualche modo sostituito la visita ufficiale che la delegazione emiratina avrebbe dovuto ricambiare in Israele a fine settembre e che il dilagare del coronavirus ha invece costretto ad annullare. Ma soprattutto ha mostrato come in questa fase i simboli siano la sostanza di un accordo che per la parte politica resta estremamente vago, mentre per quella economica fa da catalizzatore rispetto a quanto già succedeva da tempo sottotraccia tra le due parti.

L’aspetto economico resta comunque la testa di ponte fondamentale degli Accordi di Abramo. E lo si sta vedendo in queste settimane soprattutto sulla questione delicatissima delle rotte aeree. Con la pandemia il mondo dell’aviazione civile è tra i settori che stanno subendo le conseguenze più dure della crisi. Grandi compagnie di bandiera sono sull’orlo della bancarotta e anche l’israeliana El Al non fa eccezione. Diventa vitale oggi prepararsi al meglio per il dopo; così in questa lotta per la sopravvivenza l’accordo con gli Emirati Arabi Uniti sta facendo da apripista ad altre intese sui diritti di sorvolo, che accorciando le rotte permettono di risparmiare carburante e tempi di viaggio. In questo senso già qualche mese fa Israele aveva raggiunto un accordo con il Sudan, il cui spazio aereo è fondamentale per accorciare le tratte dall’America Latina. In questa settimana è arrivata invece un’intesa analoga con la Giordania, anche questa estremamente significativa: sia perché coinvolge i voli in arrivo dalla Cina; sia perché dopo molto tempo è il primo segnale vero di distensione con la Giordania, Paese con cui negli ultimi anni la «pace fredda» degli anni Novanta ha mostrato numerose crepe. Non a caso Amman finora si è guardata bene dal salutare con entusiasmo gli «accordi di Abramo», ben consapevole degli umori palestinesi in proposito. Ora però con questa mossa sembra almeno disposta a «vedere le carte».

Un segnale ancora più forte è arrivato dall’Arabia Saudita con una lunga intervista rilasciata ad Al Arabiya – l’emittente «di casa» – da Bandar bin Sultan, lo storico ex ambasciatore a Washington. Bandar è da decenni l’uomo di Riyadh più vicino agli Stati Uniti, ha “navigato” da un’amministrazione all’altra (pur essendo noti i suoi legami molto stretti con la famiglia Bush). E allora diventa significativo registrare che il cuore della sua intervista – rilasciata certamente con l’approvazione di re Salman – è un duro atto di accusa nei confronti della leadership palestinese, che viene attaccata per la sua ostilità pregiudiziale al nuovo clima che va maturando in Medio Oriente. Bandar elenca tutte le volte che i palestinesi hanno scommesso sul cavallo perdente: parte dal mufti amico di Hitler fino ad arrivare a rivelare alcuni retroscena del fallimento dei negoziati del 2000. E nella parte finale mette in guardia Ramallah dall’abbraccio non solo con Teheran, ma anche con la Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan, tornato recentemente a descriversi come il vero paladino della causa palestinese. «La Turchia occupa la Libia e vuole liberare Gerusalemme ritirando il suo ambasciatore da Abu Dhabi – commenta Bandar –. L’Iran vuole liberare Gerusalemme con gli Houthi nello Yemen o con Hezbollah in Libano e in Siria». Il messaggio dei sauditi è abbastanza chiaro: anche voi palestinesi dovete fare una scelta di campo e dentro quel contesto cercare di ottenere il meglio.

Tutto questo vuol dire che il piano di Trump è il futuro del Medio Oriente? Non è detto. Anzi, proprio gli Accordi di Abramo in parte lo hanno bloccato. Però a due mesi di distanza sembra di poter già dire che il processo che si è messo in moto è ben più grande di un colpo di mano dei suoi protagonisti attuali; ci sono le premesse perché l’asse tra Israele e il Golfo Persico si consolidi e duri a lungo. Indipendentemente dal futuro politico di Benjamin Netanyahu e dall’esito del voto del 3 novembre negli Stati Uniti.

Clicca qui per leggere la notizia sull’incontro tra i ministri degli Esteri di Israele e degli Emirati al memoriale della Shoah a Berlino

Clicca qui per leggere la notizia sull’accordo tra Israele e Giordania sullo spazio aereo

Clicca qui per leggere la trascrizione dell’intervista di Bandar bin Sultan ad al Arabiya


 

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