Vista dai ragazzini. Senza i filtri, le interferenze, i giudizi (o pregiudizi) degli adulti. Solo foto e brevi testi – in inglese e arabo – raccontano la vita quotidiana nel cuore di Hebron, 30 chilometri a sud di Gerusalemme, una delle città più difficili e militarizzate dei Territori palestinesi occupati. È l’ultimo progetto, dal titolo Through their lens (letteralmente «Attraverso la loro lente», ma potremmo anche dire «Coi loro occhi»), promosso dai volontari dell’organismo Christian Peacemaker Teams (Cpt).
Nonviolenza e protezione dei diritti umani
Hebron (o Al-Khalil, se si utilizza il toponimo arabo) si caratterizza come un contesto particolarmente problematico a causa di una storia dolorosa – fatta di massacri, compiuti contro gli ebrei nell’agosto del 1929 e, viceversa, contro gli arabi, all’interno della moschea di Abramo (o tombe dei patriarchi), nel 1994 –, della presenza di insediamenti israeliani nel centro storico e delle restrizioni, di movimento e non, imposte dall’occupazione militare.
L’organizzazione Christian Peacemaker Teams – nata anni fa per iniziativa di alcuni gruppi di mennoniti e quaccheri, ma oggi composta da volontari di varie confessioni religiose – vi è presente in qualità di osservatore internazionale dal 1995. Si è stabilita qui, su invito del sindaco, per accompagnare la popolazione attraverso un’azione diretta nonviolenta che garantisca il monitoraggio e la protezione dei diritti umani nelle situazioni “sensibili” della vita di tutti i giorni. Tra queste, ad esempio, il passaggio presso i numerosi check-point dislocati all’interno della città e l’accompagnamento dei bambini a scuola.
Liberi di raccontare, liberi di essere
I ragazzi coinvolti nel progetto sono, per ora, cinque. Hanno dai tredici ai sedici anni e abitano tutti in una zona limitata della città vecchia.
«Con Through their Lens – ci spiega Tarteel Al Junaidi, membro pelestinese dello staff raggiunta telefonicamente – abbiamo voluto dare a questi ragazzi la libertà di esprimersi e presentare sé stessi attraverso l’uso della fotografia, ovvero la libertà di documentare la loro vita sotto l’occupazione, e la loro vita in generale». Ne è emerso, continua, che «l’occupazione “prende” più di metà delle loro esistenze, perché esercita un impatto diretto e indiretto».
Fotografie e testi vengono diffusi grazie al sito del programma dedicato alla Palestina da Christian Peacemaker Teams, la pagina Facebook e la newsletter periodica, che raggiunge contatti sparsi un po’ in tutto il mondo.
I racconti dei ragazzi si concentrano su eventi semplici, vicende familiari, sentimenti, traumi. Un esempio emblematico è offerto dalle parole di Nisreen, pubblicate a fine settembre a corredo di una foto della moschea di Abramo: «Adoro la moschea di Abramo e prima ci andavo tutti i giorni. Quando è iniziato il Covid-19 non mi è stato più permesso l’accesso, ma un giorno sono uscita di nascosto e ci sono andata senza dirlo ai miei genitori. I soldati israeliani mi hanno fermata e quel giorno ho pianto. Sono tornata a casa e l’ho detto alla mamma e ho pianto e mi sono chiesta perché nessuno può impedire ai soldati israeliani di controllarci».
Il potere delle storie
Parte integrante del progetto sono i laboratori di storytelling, che si svolgono una o due volte a settimana (attualmente, a causa dell’emergenza sanitaria, solo online). «Durante questi incontri – commenta Tarteel Al Junaidi – viene posto l’accento sul potere di narrare storie, sull’importanza della costruzione delle trame per veicolare bene i messaggi».
Quando le chiediamo di raccontarci un episodio che l’abbia particolarmente colpita menziona la volta in cui fu chiesto ai ragazzi di scrivere una storia sul diritto dei bambini a giocare all’interno della propria comunità, e della conversazione avuta su questo con Nidal, tredici anni:
«Quando diciamo “giocare”, a che cosa pensi?»
«A quando giocavamo a calcio con i miei amici del quartiere».
«Perché avete smesso di giocare?»
«Perché ora siamo più grandi. La maggior parte dei miei amici ha dovuto andare a lavorare per aiutare le famiglie».
«È stato difficile per questi ragazzi», è stata l’amara conclusione di Tarteel, «identificare ciò che mancava loro da bambini. Quando ci abituiamo a una condizione anormale da sempre, non riconosciamo il “normale”, non sentiamo che vale la pena parlarne, e non riusciamo a vedere quanto sia significativo e quanto ci sta influenzando, sia nel breve che nel lungo periodo».
Al Cpt le idee per il futuro non mancano: introdurre l’uso di video da alternare alle foto, creare un sito web interamente dedicato al progetto, formare un secondo gruppo di ragazzi narratori. E magari, chissà, pubblicare un libro fotografico che raccolga tutti i contributi.