C’è una poesia delle cose e una poesia delle altezze. Appartiene alla seconda la prima opera di poesia di Francesca Bocca-Aldaqre. Si stenta a definirla una silloge, perché non è una scelta del fior da fiore dei versi migliori scritti nelle domeniche piovose e vuote di senso, ma un vero e proprio percorso di purificazione e di ascesi, tramite la parola, verso il punto più riposto del cuore, la profondità più vicina alla vertigine di Dio.
Quando parliamo di poesia delle altezze, parliamo di poesia religiosa. Ormai abbastanza rara, forse perché è démodé, nonostante che la letteratura italiana sia ricchissima di esempi: da quelli lontani nel tempo, come Dante Alighieri e Santa Caterina da Siena, a quelli più recenti come Mario Luzi. E proprio a lui, se volessimo trovare un modello di poesia italiana, si richiama molta tensione verso l’alto di questi versi, la presenza insistita di lemmi come «fiamma», «luce», «gioia»; verbi come «aprire», «cantare», «arrivare», «conoscersi», «annidarsi», disseminati lungo tutte le cinquanta liriche, divise in quattro sezioni.
Le quattro sezioni – che si intitolano Uno. All’incontro; Due. Al segno, quando è ricordo; Tre. Alla malattia, quando voglio guarire; Quattro. Alla gioia – segnano il percorso mistico del poeta-orante, alla ricerca di Dio, all’interno delle asprezze della vita. La stessa autrice lo dice nella nota al testo: «Queste poesie sono nate dal colpo di un’esperienza e, in questo caso, dalle esperienze più aconfessionali di tutte: un amore e una malattia». Queste esperienze, culminate nella morte fisica e improvvisa dell’amato, diventano la porta per la sublimazione, per trovare (e cercare) Dio nonostante la fatica del vivere.
È proprio quando tutto va in frantumi, quando «l’ossatura del mondo» «è caduta tra le mani», che «la fatica» va spezzata e il poeta comprende di non amare «chi tramonta, / chi abbandona il suo tesoro, la sua cura», ma che l’aprirsi alla speranza è la chiave per la vita terrena e per quella celeste. Il testo, che si apre già alla ricerca di Dio che qui è dichiaratamente l’Uno (e non il Trino) – dunque il Dio delle tre religioni monoteiste, ma con un più esplicito riferimento alla tradizione ebraico-islamica – è un mosaico che cattura e cristallizza i momenti progressivi di avvicinamento dell’uomo verso l’Altissimo, dove Dio è colui che già mostra tutto di sé ma è l’uomo, il Wanderer, che fatica cercandolo («Per chi cerca e fatica / è già aperta la mano» o, ancora «Rivelami il centesimo nome»).
Il percorso verso la pienezza della fede e l’abbandono a Dio non è cosa facile: non a caso, nei tre quarti del testo il lemma che occorre maggiormente è – appunto – «fatica». Ma lì dove essa arriva al suo picco, ecco che il poeta sa che la parola di Dio è ciò che rimane. E scrive: «Quando piego dai giorni l’attesa: rimani / se non trovo il sonno e ti cerco: rimani / dove torni tu l’erba d’inverno non muore / in me non c’è altro che un soffio: rimani. / Sei la parola che non rivela la cosa / sei il viaggio che non svela la meta / di quello che sei, la fitta più grande / sei l’amante che mai incontra l’amato».
Francesca Bocca-Aldaqre, teologa, specialista di neuroscienze e già coautrice (con Pietrangelo Buttafuoco) di Sotto il suo passo nascono i fiori, Goethe e l’Islam per La Nave di Teseo (2019), non fa mistero, in questa poesia, di essere abitante e studiosa della fede e della cultura islamica, che risuona qui in citazioni dal poeta mistico Rumi, dal Corano, e dagli hadith del profeta Mohammad. Il suo pregio maggiore, però, – come sottolinea il poeta Davide Rondoni nella sua intensa prefazione – è che «ci guida, capace di versi sfolgoranti, di precipizi e di elevazioni, in un viaggio personale» e, soprattutto, «universale».
Francesca Bocca-Aldaqre
Non amo chi tramonta
ed. Capire, Forlì 2020
pp. 72 – 10,00 euro