Nel magma del Medio Oriente dei giorni nostri la Cina non sta più al davanzale: cerca spazi, rafforza i legami con l'Iran e preoccupa gli Stati Uniti. Che esortano gli alleati a scegliere da che parte stare...
E se l’accordo politico-diplomatico-militare tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, messo a punto dall’amministrazione statunitense del presidente Donald Trump, e annunciato con grande spolvero mediatico lo scorso 13 agosto, avesse anche un obiettivo «segreto» oltre all’esplicita strategia anti-Iran? Se fosse finalizzato anche a bloccare la strada alla Cina, nella sua non troppo silenziosa avanzata verso il presidio delle rotte marittime e commerciali mediorientali, specie ora che Pechino sembra in procinto di firmare un accordo spettacolare con la repubblica degli ayatollah? A sospettarlo cominciano ad essere diverse fonti autorevoli tra gli analisti delle vicende mediorientali.
Ricapitoliamo brevemente i fatti. Il 13 luglio scorso, il New York Times pubblica una copia della «versione finale» di un accordo di partenariato strategico tra Cina e Iran. È un’intesa di cui si parlava dal 2016 e su cui si è lavorato sottotraccia. Secondo il testo anticipato dal quotidiano statunitense, e non ancora sottoposto al Parlamento di Teheran, i due Paesi approfondirebbero la cooperazione militare, con condivisione d’intelligence, ricerca e sviluppo di armamenti ed esercitazioni congiunte. La Cina si impegnerebbe a investire 440 miliardi di dollari nell’economia iraniana nei prossimi 25 anni. Di questa somma, 280 miliardi di dollari sarebbero destinati all’industria del gas e del petrolio e i restanti 120 miliardi si indirizzerebbero verso altri settori chiave, come il sistema bancario, le telecomunicazioni, porti e ferrovie, infrastrutture di cui il gigante asiatico diventerebbe azionista. In cambio, la Cina riceverebbe un costante rifornimento di petrolio iraniano ad un prezzo decisamente scontato per i prossimi 25 anni. L’accordo, se verrà finalizzato, potrebbe diventare una carta vincente per entrambi i Paesi, anche se gli ultra-nazionalisti iraniani, tra cui l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad, già denunciano la svendita dell’indipendenza della Repubblica islamica. L’economia iraniana, sottoposta alle sanzioni e alla politica di «massima pressione» dall’amministrazione Trump, ha bisogno di essere resuscitata. E gli investimenti cinesi rappresenterebbe la ciambella di salvataggio per non affogare. Dall’altra parte, l’intesa con l’Iran consentirebbe a Pechino di avere un avamposto strategico in Medio Oriente, uno snodo chiave nel suo ambizioso progetto di ricostruire la «via» o «la cintura» della seta per accrescere l’influenza economica e geopolitica sul continente euroasiatico. La fuga di indiscrezioni sulla futura alleanza sino-iraniana e i suoi aspetti militari hanno fatto suonare campanelli d’allarme a Washington, ed è stata accompagnata da misteriose esplosioni in siti nucleari e militari iraniani e seguita dalla terribile deflagrazione del porto di Beirut in Libano lo scorso 4 agosto. Tutti episodi rimasti finora senza una spiegazione.
Sta di fatto che la Cina, agli occhi dell’amministrazione Trump, è diventata una concorrente troppo ingombrante e temibile nella regione. Non solo ruba spazio e posizioni strategiche alle imprese americane in quanto è uno dei principali partner commerciali di Israele, degli Emirati e dell’Arabia Saudita, ovvero i tre referenti di Washington nell’area, ma si appresta a diventare il principale partner militare ed economico dell’arcinemico storico, l’Iran.
«Nei suoi viaggi mediorientali, il segretario di Stato Mike Pompeo ha cominciato a chiedere esplicitamente ai suoi alleati del Golfo di scegliere da che parte stare, se con la Cina o con gli Stati Uniti», osserva Samuel Raman un analista di affari mediorientali e ricercatore di Oxford. «Il patto tra Israele e Eau – sottolinea – è parzialmente finalizzato alla sicurezza marittima e a prevenire minacce alle vie commerciali vitali». In gioco sono il controllo dello Stretto di Hormuz, la porta del Golfo Persico e del più grande mercato petrolifero del mondo, e il controllo del Bab El Mandeb , la striscia d’acqua che divide lo Yemen dal Corno d’Africa e costituisce l’accesso al Canale di Suez per il traffico marittimo tra l’Oceano Indiano e il Mar Mediterraneo. Sono vie di comunicazione strategiche per gli Stati Uniti e l’Europa, ma che rappresentano «una questione di vita o di morte» anche per Pechino, si legge in un editoriale del South China Morning Post. La Cina si è mossa finora con grande pragmatismo e senza fare troppo rumore tra affari, investimenti, costruzione e acquisizione di una rete di porti che collegano il Sud-Est asiatico a Gibuti e all’Africa, un filo di perle preziose. L’accordo che la Cina sta negoziando con l’Iran rappresenterebbe però un momento di svolta nella corsa al posizionamento geopolitico. Le infrastrutture portuali, ad esempio, hanno sempre una valenza duplice, commerciale e, potenzialmente, anche militare. Sotto il profilo navale, il Golfo Persico vede un’indiscussa preminenza americano-saudita-emiratina. Cosa succederebbe se sulla costa iraniana vi fossero infrastrutture vitali finanziate da Pechino?
Washington – secondo il gruppo di analisi economica Eurasia – è corsa a serrare le file, e da questo sforzo nasce l’alleanza trilaterale degli Stati Uniti con Israele ed Eau. «Quella tra Pechino e Teheran è un’intesa – ha detto il segretario di Stato americano Pompeo – che metterà i soldi del Partito comunista cinese nelle mani dell’Iran e dei suoi alleati regionali, in particolare gli Houthi yemeniti e gli Hezbollah libanesi». Un avvertimento estremamente chiaro e una chiave di lettura degli eventi altrettanto esplicita.
Perché Persepolis?
La città di Persepolis era il centro del mondo prima di Alessandro Magno e di Roma. Era simbolo di una stagione di convivenza e integrazione culturale per quell’immensa regione che chiamiamo Medio Oriente. Oggi le rovine della capitale politica dell’antico Impero Persiano si trovano nel cuore geografico di un’area che in pochi decenni ha visto e vede guerre disastrose, invasioni di superpotenze esterne, terrorismo, conflitti latenti e lacerazioni interne all’islam: eventi che sfuggono alle semplificazioni con cui spesso in Occidente si leggono le vicende di quel quadrante geografico e che richiedono pazienza nel ricercare i fatti e apertura nel valutarne le interpretazioni. È ciò che si sforzerà di fare questo blog, proponendo uno sguardo ravvicinato sulla cultura, la società, l’economia, la religione, le radici identitarie dell’Iran e dei territori a forte componente sciita, compresi tra il Mediterraneo e Hormuz, tra lo Yemen e l’Asia Centrale.
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Elisa Pinna, giornalista e scrittrice, è stata vaticanista, inviata per il Medio Oriente e corrispondente da Teheran per l’agenzia Ansa, oltre che collaboratrice di diverse testate italiane. Ha scritto libri sul pontificato di papa Benedetto XVI, sulle minoranze cristiane in Medio Oriente, sull’eredità dell’apostolo san Paolo. Con le Edizioni Terra Santa ha pubblicato Latte, miele e falafel: un viaggio tra le tribù di Israele e contribuito a Iran, guida storica–archeologica.