Tutto il mondo è paese. Anche il Medio Oriente, in tempo di Covid-19, come gran parte del Vecchio Continente, è alle prese con il tema della riapertura delle scuole. Tra didattica a distanza, polemiche sulle dotazioni tecnologiche degli studenti e paura per una possibile nuova ondata di contagi, Giordania, Israele, Libano e Territori Palestinesi si stanno preparando all’inizio dell’anno scolastico 2020/2021.
I propositi giordani
«Fornire istruzione ai nostri studenti, in tutti i governatorati e in ogni circostanza»: è questo l’obiettivo del governo giordano secondo il ministro dell’istruzione Tayseer Nuaimi.
Il tam-tam mediatico in Giordania qualche giorno fa aveva preceduto le notizie ufficiali: sui social, in particolare su Twitter, si leggevano commenti di esultanza per lo stanziamento, il 9 agosto, di 57 milioni di dinari (circa 68 milioni di euro) nell’arco di un quinquennio per l’acquisto di computer e strumenti tecnologici destinati a studenti in condizioni di povertà.
Riguardo all’apertura delle scuole, il governo di Amman sembra aver raggiunto una decisione. Il ministro dell’Informazione Amjad Adaileh ha spiegato ai microfoni dell’agenzia di stampa governativa Petra: «Le scuole e le università inizieranno nelle date previste: il primo settembre per le scuole e ai primi d’ottobre per le università. Lo Stato vigilerà con particolare attenzione affinché ogni istituto si attenga alle misure di prevenzione e precauzione e si seguano gli adeguati protocolli sanitari».
La Giordania ha avuto, secondo le fonti ufficiali, pochi casi di Covid-19 con un numero complessivo di 1.639 contagi finora accertati, e 13 decessi (dati del ministero della Salute aggiornati al 24 agosto).
Riapertura cauta nelle aule israeliane
Un futuro ben diverso potrebbe prospettarsi per gli alunni israeliani. All’inizio di agosto il direttore generale del ministero della Salute Chezy Levy non ha escluso, secondo quanto riportato dal quotidiano The Times of Israel, un possibile slittamento del rientro a scuola (previsto per il primo settembre) degli allievi dalla quarta elementare in su, a causa di una possibile nuova ondata di Covid-19. L’affermazione, subito smentita dal ministero dell’Istruzione, ha provocato molte critiche interne al governo e immediate smentite. «C’è qualcuno che sta dichiarando mezze verità per ottenere titoli sui giornali», ha dichiarato il ministro dell’Istruzione Yoav Gallant, che ha aggiunto: «L’anno scolastico inizierà il primo settembre e chiunque dica il contrario crea inutile panico. Dall’asilo fino alla seconda elementare le lezioni si svolgeranno regolarmente con circa 30-35 bambini per classe; la terza e la quarta elementare saranno suddivise in piccoli gruppi fino a un massimo di 18 studenti, dalla quinta elementare fino all’ultimo anno di superiori gli alunni saranno sempre divisi in piccoli gruppi, ma avranno solo due giorni di lezioni in classe a settimana; le restanti si terranno da remoto».
Il ministero dell’Istruzione israeliano ha poi reso noti i piani della riapertura, con uno stanziamento di 4,2 miliardi di shekel (oltre 1 miliardo di euro) per l’adeguamento igienico sanitario degli istituti scolastici.
Uno dei nodi più problematici, però, è quello dell’assunzione di nuovi insegnanti: per riuscire nel loro piano di riapertura, infatti, le scuole israeliane avranno bisogno di circa 15 mila nuovi insegnanti. Le polemiche non mancano: «Gli insegnanti non sono babysitter», ha dichiarato alla Jewish Telegraphic Agency Ruti Anzel, direttore del Dipartimento per l’istruzione elementare di Tel Aviv, «è impossibile formare un insegnante in poco tempo».
Nulla è certo. L’apertura delle scuole verrà fortemente influenzata dalla curva dei contagi dei prossimi giorni. In Israele il coronavirus è tutt’altro che sotto controllo. La riapertura delle scuole a maggio, insieme al proliferare di focolai specie nelle comunità ultraortodosse, ha causato un aumento esponenziale dei casi con un computo totale di 105 mila contagiati e circa 850 decessi (al 24 agosto). Ronni Gamuzu, incaricato di dirigere la campagna nazionale contro il virus, ha avvertito in una recente conferenza stampa che il Paese potrebbe affrontare un altro lockdown su tutto il territorio se i casi confermati non scenderanno sotto un centinaio al giorno entro il primo settembre.
Palestinesi in classe con trepidazione
Alcune scuole sono già invece state aperte nei Territori Palestinesi. Dopo cinque mesi di chiusura, infatti, nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania alcune scuole superiori sono state riaperte all’inizio di agosto, come riporta la testata online Mondoweiss. La Palestina fino alla riapertura delle scuole è riuscita a gestire il contagio con un totale di oltre 25 mila casi e circa 150 decessi (al 24 agosto). A pochi giorni dal ritorno in aula però, sono stati segnalati casi di Covid-19 tra insegnanti e studenti. «Anche prima del coronavirus avevamo un serio problema di sovraffollamento nelle aule scolastiche» afferma una madre di cinque figli che vive nel campo profughi di Deheisheh a Betlemme, «nel mezzo di una pandemia come posso sentirmi tranquilla nel mandare i miei figli a scuola? Non voglio metterli in pericolo, ma allo stesso tempo voglio che continuino la loro istruzione. È una decisione davvero difficile», ha concluso la donna.
Il ministro dell’istruzione palestinese Marwan Awartani, aveva dichiarato durante un briefing a Ramallah, di voler riaprire le scuole di ogni genere e grado entro il 6 settembre, utilizzando il sistema della didattica mista, una decisione che da una parte si scontra con le possibilità economiche dei palestinesi (si stima che 775 mila persone vivano in vari campi profughi in Cisgiordania), dall’altra invece deve fare i conti con un grosso aumento dei casi che ha costretto in queste ore le autorità di Gaza a ordinare nella Striscia un lockdown di almeno 48 ore, dopo la scoperta di un focolaio di coronavirus in un supermercato della località di Deir el-Balah e di un altro focolaio nel campo profughi di al-Maghazi.
La decisione di Awartani non è stata rettificata, ma con una nota lo stesso ministro ha fatto sapere che le scuole riapriranno «a meno che non si verifichi una nuova ondata di Covid-19».
Gli interrogativi dei libanesi
Il Libano, piegato dall’esplosione nella capitale Beirut dello scorso 4 agosto e dall’esponenziale aumento dei contagi che il 21 agosto ha indotto il ministero della Sanità a imporre due settimane di lockdown parziale, sta cercando di organizzarsi per la riapertura delle scuole che però, come confessa Hilda El-Khoury, consulente del ministero dell’Istruzione libanese non avverrà «prima della fine di settembre».
El-Khoury, parlando con Arab News, ha aggiunto: «Il comitato per l’applicazione delle misure preventive e delle procedure per il coronavirus si è riunito il 18 agosto e ha raccomandato che si inizi l’anno scolastico con una forma mista, e-learning e lezioni frontali, in modo che la frequenza in presenza non superi il 50 per cento della capacità della scuola, in modo da rispettare le cautele sanitarie».
Padre Boutros Azar, segretario generale del Segretariato delle scuole cattoliche in Libano e coordinatore dell’Associazione delle istituzioni educative private, ha espresso, come riportato da Arab News, la sua perplessità circa la riapertura, ricordando come al problema del coronavirus si siano aggiunti nella capitale la distruzione o il serio danneggiamento di 55 scuole a causa dell’esplosione al porto. Azar ha aggiunto: «Le scuole dovranno affrontare innumerevoli ostacoli. Chi fornisce elettricità e accesso al web a studenti e genitori in un Paese che si trova ad affrontare il razionamento dell’elettricità e i costi elevati per l’utilizzo di Internet? Come possono studiare più figli nella stessa famiglia utilizzando un solo computer? In che modo i genitori seguiranno i loro figli, soprattutto se lavorano fuori casa? Quando gli studenti andranno a scuola, ci saranno grandi costi per la sterilizzazione degli ambienti e per rendere il trasporto degli alunni sicuro».
Insomma, in Giordania, Israele come in Libano, si stanno vivendo problemi comuni al resto del mondo a causa della pandemia, aggravati, in alcuni di questi Paesi, da condizioni economiche e sociali ben diverse dall’Occidente. Resta il fatto che l’istruzione è uno dei nodi più problematici e fondamentali per la crescita democratica ed economica di un Paese.
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