La «grande coalizione» che ha dato vita in maggio all’attuale governo di Netanyahu sembra già al capolinea. Mentre si aggrava la situazione economica e sanitaria, in Israele cresce la domanda di una netta alternativa politica.
Doveva essere il governo di unità nazionale che faceva uscire Israele dallo stallo politico che dura ormai da due anni. Doveva essere il compromesso necessario per permettere a Israele di far fronte all’emergenza del coronavirus. Doveva essere l’accordo tra i due principali contendenti in cui tutto era messo nero su bianco. Invece, a meno di tre mesi dal giuramento – e proprio mentre la seconda ondata di Covid-19 torna a riempire le terapie intensive del Paese e il vicino Libano è alle prese con le ripercussioni politiche della sua tragedia – il governo Netanyahu-Gantz sembra già a un passo dal capolinea.
In Israele si parla apertamente di un possibile quarto appuntamento con il voto in poco più di un anno e mezzo. Una nuova tornata elettorale che potrebbe concretizzarsi nel novembre 2020. Che cosa sta succedendo? La debolezza del governo fondato sulla «staffetta» che – sulla carta – avrebbe dovuto vedere nell’autunno 2021 il passaggio di consegne tra Benjamin Netanyahu e Benny Gantz alla guida dell’esecutivo era già tutta scritta nelle sue premesse. Lo stesso numero record di poltrone – 36 ministri e 19 viceministri in un Paese dove i parlamentari sono in tutto 120 – era un indizio molto chiaro in questo senso. Perché l’alleanza tra il Likud e Blu e Bianco non era affatto alla pari: scegliendo la coalizione di unità nazionale a costo di spaccare in due il suo partito Gantz in primavera aveva già firmato il suo suicidio politico. Perché è vero che con i suoi 15 parlamentari Blu e Bianco resta decisivo per la tenuta del governo; ma tutti i sondaggi lo danno ormai molto lontano da questi numeri. E Netanyahu – che non ha mai voluto realmente la staffetta – ne è ben consapevole. Fino a pochi giorni fa era convinto che un nuovo ritorno al voto, con un’opposizione senza una leadership alternativa, gli avrebbe garantito ciò che nelle tre tornate precedenti non ha ottenuto: una solida maggioranza della coalizione delle destre.
Così il premier ha puntualmente innescato la miccia per far saltare tutto. Il 25 agosto è il termine ultimo che la legge impone per l’approvazione del bilancio; nell’accordo di governo – firmato a maggio – era prevista l’approvazione di un bilancio biennale, che tenesse dentro anche tutto il 2021. Una condizione voluta da Gantz per evitare che nell’estate prossima Netanyahu approfittasse di questa scadenza per liquidare il governo ed evitare la «staffetta». Nel giro di pochi giorni, però, il leader del Likud si è rimangiato la promessa e ha cominciato a insistere sul fatto che l’emergenza del coronavirus «impone» l’adozione di un bilancio di emergenza per il solo ultimo scorcio del 2020.
Così da settimane è scontro aperto all’interno del governo, mentre il 25 agosto si avvicina.
Quello che però Netanyahu non aveva calcolato è che la situazione provocata dal Covid-19 si facesse realmente più grave in Israele: la seconda ondata si sta rivelando più dura della prima; il virus dilaga, si muore molto di più oggi che a marzo, lo stesso ospedale Hadassah – il grande ospedale di Gerusalemme – è in grave difficoltà. E il tutto mentre le conseguenze della pandemia sull’economia sono pesanti: nel tentativo di recuperare terreno, le attività sono state riaperte troppo presto, la situazione è andata fuori controllo e adesso imporre un nuovo lockdown è difficile.
Il malcontento dilaga e Netanyahu – preso in contropiede – rinnega il suo ultraliberismo distribuendo sussidi a pioggia. Questa volta, però, non funziona e ogni settimana le proteste delle «bandiere nere» davanti alla sua residenza ufficiale di Gerusalemme e in tutte le città di Israele si fanno più imponenti. L’accusa è quella di aver pensato più ai suoi tornaconti personali che a gestire davvero l’emergenza del coronavirus.
Che cosa succederà allora? I sondaggi non sono affatto positivi per il Likud; viceversa in forte crescita è Naftali Bennett, il leader di Yamina, il partito della destra nazionalista rimasto fuori dal governo. Ancora una volta Netanyahu è a un bivio: andare avanti comunque verso le quarte elezioni in due anni, con tutti i rischi che i prossimi mesi comporteranno e sapendo che comunque Bennett dopo il voto alzerà il prezzo? Oppure, fare marcia indietro e mantenere in vita il governo con Gantz che resta però debolissimo e paralizzato dalle divergenze su tante questioni?
Dall’altra parte, anche l’opposizione comincia a muoversi. Un ritorno di Gantz alla guida della coalizione alternativa a Netanyahu è ormai improponibile. Così Yair Lapid – l’ex giornalista leader di Yesh Atid, il partito più laico di Israele che ha rotto l’alleanza elettorale con Blu e Bianco rifiutando di entrare al governo – spera che sia giunto il suo momento. Ma c’è anche un altro nome che ritorna sempre più spesso: quello del sindaco di Tel Aviv Ron Huldai. Praticamente l’ultima figura popolare rimasta in ciò che un tempo erano i laburisti. In una crisi che assomiglia molto a quella sociale che Israele visse nel 2011 con il «movimento delle tende», l’assenza di una vera proposta politica alternativa all’Israele dell’alleanza tra magnati e nazionalisti (incarnata da Netanyahu) si fa sentire.
La vera domanda è: la crisi pesante che anche Tel Aviv sta vivendo per il Covid-19 la porterà a uscire dalla sua bolla per provare a parlare a Gerusalemme e a tutto il Paese? Che arrivino davvero a novembre oppure l’anno prossimo, la partita sulle «quarte elezioni» si giocherà ancora una volta su questo.
Perché La Porta di Jaffa
A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.