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Il dottore dei poveri

Laura Silvia Battaglia
25 agosto 2020
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In Egitto un tributo popolare al dottor Mohamed Mashali, recentemente scomparso. Per la sua attenzione ai pazienti meno abbienti si era guadagnato una grande stima. La sua fama rimbalza sulle reti sociali arabe.


È un evento che continua a fare notizia nel mondo e nei media arabi, ma di cui, inspiegabilmente, non si trova quasi traccia nei mezzi di comunicazione europei. Ma è una storia universale ed eccezionale, che merita più di una riga e di una riflessione. Un medico egiziano noto per avere curato gratuitamente i suoi pazienti per tutta la vita è morto alla fine di luglio, ma aneddoti sulla sua estrema bontà e generosità vengono portati alla luce di settimana in settimana, tanto che da più parti il dottor Mohamed Mashali è ormai definito il santo musulmano contemporaneo e i social media lo ritraggono di volta in volta come angelo o supereroe volteggiante sopra i cieli del Cairo.

Mohamed Mashali, un uomo segaligno e dal viso dolcissimo, esercitava la sua professione nella città di Tanta, nel delta del Nilo, dove era già stato premiato con il titolo di «dottore dei poveri» dai funzionari egiziani per aver servito la sua comunità per oltre cinquant’anni. Il dottor Mashali usava addebitare ai suoi pazienti solo 5-10 sterline egiziane (dai 30 ai 60 centesimi di euro) per visita e spesso ha curato persone nullatenenti nelle sue tre cliniche senza addebitare alcuna spesa. Lavorava dodici ore al giorno, anche da quando aveva compiuto 70 anni, servendo quotidianamente decine di pazienti. Talvolta forniva vaccini gratuitamente a persone che non potevano permetterseli.

In occasione della sua morte, sono riemerse molte interviste rilasciate in passato dal dottor Mohamed ai media, ai quali, però, si è quasi sempre negato, al punto tale che molti giornalisti, per intervistarlo, dovevano prima fingersi pazienti. La rivista egiziana Hadret El Mowaten riuscì a ottenere un’intervista usando questo espediente discutibile: in ogni caso, nell’intervista il dottore aveva raccontato di essere motivato a servire la sua comunità quasi gratuitamente a causa di una vicenda nella quale si era imbattuto da giovane: un suo paziente diabetico era morto dopo che la madre del giovane gli aveva detto che poteva acquistare il necessario solo per la cena, ma che non poteva permettersi di comprargli l’insulina. «Quando il figlio chiese alla madre l’insulina, e lei gli riferì che non poteva permettersi di comprarla, e che gli unici soldi che aveva sarebbero serviti per acquistare la cena per lui e i fratelli, il ragazzo si suicidò», ricordava il medico.
L’episodio ebbe un impatto così forte nella memoria e nella psicologica di Mashali che il dottore si ripromise, per quanto potesse dipendere da lui, che in nessun’altra famiglia si sarebbero ricreate le condizioni che portarono a quel suicidio.

Mohamed Mashali, specialista in malattie endemiche, riteneva che fossero le persone povere ad essere le più colpite, «anche perché non possono permettersi trattamenti costosi». Mashali era schivo con i media, ma socievole e gentile. «Ci sono dottori che, se li incroci per strada, non ti riconoscono nemmeno o non ti salutano. Ma non questo dottore: Mohammad ti salutava e ti avrebbe dato anche consigli medici, se necessario», ha testimoniato uno dei suoi pazienti. L’hashtag in arabo corrispondente a #Dottore_dei_poveri è nella top ten degli hashtag sui principali canali sociali (Twitter, Facebook e Instagram) in tutti i Paesi in lingua araba da almeno un mese.


 

Perché Diwan

La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.

Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.

Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).

Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).

Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).

 

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