A una settimana di distanza dalla tremenda esplosione generata dalle 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio che ha devastato Beirut, la citta brancola più che mai nel buio. Nonostante le autorità avessero promesso un chiarimento delle cause e delle responsabilità entro cinque giorni, dai palazzi del potere e dalla magistratura non arriva ancora alcuna indicazione circa le circostanze della tragedia che ha colpito la capitale, distruggendo diversi quartieri e uccidendo 171 persone, secondo un ultimo rapporto del ministero della Salute. Oltre 6mila feriti, decine di migliaia i senzatetto e ancora 30 i dispersi.
Non si conosce ancora nulla di preciso circa le modalità di stoccaggio di questo pericoloso materiale in un’area densamente popolata. L’inchiesta sulle responsabilità amministrative e politiche, dirette e indirette, langue. E le dimissioni dell’esecutivo di Hassan Diab che ha ceduto alle pressioni dei manifestanti (ma soprattutto a quelle politiche) ha di fatto consegnato (nuovamente) il Paese all’ignoto.
Nel frattempo, il capo dello Stato Michel Aoun ha affidato alla Corte di giustizia il dossier penale sull’esplosione al magazzino 12, con il mandato tassativo della celerità. Un secondo procedimento, di tipo amministrativo, è stato avviato invece dal governo. Ma la paura dei libanesi è che l’intera vicenda finisca in una bolla di sapone, tali e tante sono le connivenze che pian piano emergono.
Da fonti di stampa si apprende infatti che il 20 luglio 2020, due settimane prima dell’esplosione, i servizi di sicurezza avevano inviato un rapporto alle autorità competenti (in primis Interno e Trasporti) nel quale avvertivano pericolo e soprattutto invitavano a prendere provvedimenti. Insomma, i massimi livelli politici del Paese (compreso il presidente Aoun) sapevano che presso il porto di Beirut era presente una vera e propria bomba di inaudita potenza, pronta ad esplodere. Sembra che nessuno abbia fatto nulla, oltre a un normale scambio di corrispondenza tra uffici.
In luglio, un avviso di pericolo
A dar credito a un comunicato dell’ufficio stampa della direzione dei Servizi di sicurezza, riportato dal quotidiano libanese L’Orient-Le Jour, sarebbe stata inviata anche una nota alle autorità portuali per intimare loro di «avviare le misure necessarie a tutti i livelli per evitare un incidente».
Sul perché nessuno abbia fatto nulla, eludendo gli obblighi e esponendo di fatto la città e il Paese alle conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti, si spera venga fatta chiarezza. Come ci si aspetta chiarimenti anche sulla torbida vicenda del nitrato d’ammonio che si trovava su una nave russa e che è stato sequestrato nel 2014 per tasse portuali non pagate (secondo la versione ufficiale).
Il rischio che il materiale del magazzino 12 potesse essere rubato e utilizzato anche per attività terroristiche sembra essere stato ben evidenziato nei rapporti presentati alle autorità.
Ma a una settimana di distanza dal disastro, mentre Beirut piange i morti e cerca di riaversi da una ferita profondissima, a dominare il dibattito sono ancora congetture e illazioni. Davvero l’esplosione sarebbe stata provocata da alcuni lavori di saldatura, le cui scintille avrebbero innescato la combustione di un deposito di fuochi d’artificio presente nello stesso magazzino? E come è stato possibile mettere a contatto quantitativi enormi di materiali altamente esplosivi senza alcuna misura di sicurezza?
Che sia un problema di negligenza, mala gestione, irresponsabilità o dolo, la domanda che si pone il popolo libanese è una sola: qualcuno ne pagherà il prezzo?