È scritto con un linguaggio chiaro, preciso, informativo e senza ripiegamenti soggettivi, esattamente come un racconto contemporaneo di matrice giornalistica dovrebbe essere. In comune con altre narrazioni degli ultimi cinque-sei anni – in particolar modo da quando il mondo e, soprattutto il Medio Oriente, hanno conosciuto il terrorismo islamista dell’Isis, altrimenti detto Stato Islamico – ha un ragionamento di tipo interlocutorio e una domanda di fondo: esistono i buoni e i cattivi nella Storia? È possibile raccontarla come un film in bianco e nero o piuttosto le scale di grigi sono assai più prevalenti? Chi sono gli amici e chi sono i nemici?
Il «nemico», ormai oggetto dell’interesse di gran parte dei giornalisti testimoni dei conflitti, è evocato già nel titolo di questo saggio di Marta Serafini, L’ombra del nemico. L’autrice definisce il libro come «un viaggio lungo cinque anni, che mi ha portato in Medioriente, in Europa, nel Mediterraneo, in Afghanistan per cercare di rispondere alla domanda più complicata: perché?» Ossia perché un’altra generazione ancora – stavolta soprattutto europea – ha scelto il fondamentalismo, il terrorismo, la guerra.
Le risposte Serafini le trova, frammentate, in questo viaggio, tra la testimonianza di un conflitto o di un naufragio e le notizie di agenzia che arrivano sul suo terminale di lavoro al Corriere della Sera. Si intrecciano con i rivoli della storia redente che non può non essere evocata per cercare di comprendere il presente e analizzarlo. Così, il racconto dell’attentato alla redazione del giornale satirico parigino Charlie Hebdo (7 gennaio 2015), non può non tirare in ballo la mente di quell’humus culturale che è la «chiamata al jihad»: lo statunitense d’origini yemenite Anwar al Awlaki (1971-2011), una figura che da sola basta per capire molte cose sul terrorismo di matrice islamista, benché il più delle volte, venga dimenticata per dare spazio ad Abu Bakr al Baghdadi e al suo neo-Califfato, assai più mediatizzato, ma molto meno importante per la comprensione ideologica e operativa di al Qaida e di tutti i gruppi satelliti da essa generati.
Di certo, il punto di maggiore interesse del libro è l’incontro della Serafini con Maria Giulia Sergio, la più nota jhadista italiana affiliata allo Stato islamico. Una storia che l’autrice addenta senza più lasciarla, come ogni buon cronista dovrebbe fare, e che dà origine ad altre ricerche, non solo in Italia, sempre più approfondite. L’incontro con la Sergio e con altre donne che hanno scelto l’inflessibilità e la vendetta, consente a Serafini di porsi una serie di domande che frastagliano l’interrogativo cardine del saggio: Cosa fare quando il nemico è una nemica? Possibile che le donne possano diventare carnefici di altre donne? Che possano vittimizzare altre donne? E, se lo fanno, perché?
Il racconto si chiude nelle acque del Mediterraneo. Qui, dove Serafini riannoda i ricordi della sua spedizione sulla nave Aquarius e delle cronache dello sbarco della Diciotti, e sceglie di raccontare la storia di Josepha, donna e nera, vittima prima della tratta di esseri umani e dei carcerieri libici, poi del razzismo e del populismo on line di molti italiani e di alcuni politici fomentatori, aizzati da un po’ di smalto arancione sulle unghie.
Come fanno molti italiani, il libro a un certo punto si chiede: è vero che tra i migranti che solcano questo mare arrivano anche terroristi? Che arrivano i nostri nemici? L’ultima tappa dell’itinerario è perciò quella nei campi profughi più problematici del Mediterraneo: Moria a Lesbos, in Grecia; al Hol in Siria, nella zona controllata dai curdi.
È qui che arriva la risposta alla domanda iniziale: sì, questa umanità in cocci può diventare nostra nemica se continuerà a non trovare dignità e giustizia. Serafini propone un atteggiamento: la sospensione del giudizio. E una soluzione: l’impegno, ognuno nel suo ruolo sociale, per un mondo meno diseguale, più inclusivo, meno polarizzato.
Marta Serafini
L’ombra del nemico
Una storia del terrorismo islamista
Solferino, 2020
pp. 240 – 16,50 euro