Negli stessi giorni in cui la vicenda di George Floyd suscitava proteste negli Usa, l'Iran apprendeva la notizia di una minorenne uccisa dal padre per insubordinazione. Un caso non isolato, che ha però suscitato una presa di coscienza collettiva.
Reza Ashrafi, un contadino povero del Nord-Ovest dell’Iran, pensava di essere nel suo pieno diritto di padre e di proprietario del sangue della sua discendenza, quando ha deciso di decapitare con una falce la figlia quattordicenne, Romina, colpevole di essere fuggita con un fidanzato di 15 anni più vecchio di lei e non gradito ai familiari. La polizia l’aveva riacciuffata e riconsegnata al genitore, nonostante le suppliche della ragazzina.
Un delitto d’onore insomma, come ne accadono a centinaia nelle campagne non solo iraniane, ma anche pakistane, afghane, turche. Stavolta però l’omicidio di Romina, forse per la particolare efferatezza, ha provocato un’ondata di orrore, di rifiuto, di vergogna in un Iran che ormai si percepisce diverso dal Medioevo in cui vive ancora la famiglia Ashrafi. Il caso ha voluto che la notizia della morte di Romina, avvenuta nella notte del 21 maggio scorso, fosse pubblicata dai giornali nazionali il 25 maggio, il giorno in cui a migliaia di chilometri di distanza, a Minneapolis negli Stati Uniti, un poliziotto bianco uccideva, senza motivo se non la sua posizione di potere, l’afroamericano George Floyd, soffocandolo con un ginocchio sul collo.
I due Paesi arci-nemici si sono trovati nelle stesse settimane a fare i conti, in dinamiche mediatiche simili, con la propria cattiva coscienza e con i retaggi oscuri del passato: la questione del razzismo si è allargata a macchia d’olio negli Stati Uniti e poi nell’Occidente ex colonialista ed è tuttora cronaca di questi giorni.
Quel che è successo in Iran è meno noto ed è in qualche modo sorprendente. La notizia dell’uccisione di Romina non ha provocato scontri o divisioni tra attivisti e dirigenza religiosa, ma rimbalzata e amplificata su tutti i media e i social, ha invece preso un’unica direzione trasversale e maggioritaria: il rigetto della legge ancora in vigore, eredità dell’antica tradizione islamica sciita, in base alla quale un padre omicida, in quanto tutore maschio della figlia, se la potrebbe cavare con un massimo di dieci anni di prigione. Il Majlis, il parlamento iraniano, ha approvato in poche settimane una nuova legge, ribattezzata la Legge di Romina, che inasprisce le pene e criminalizza chiunque compia violenze fisiche sui minori o non se ne prenda cura. Era un provvedimento che languiva da 11 anni nei cassetti. Il presidente della Repubblica islamica Hassan Rouhani ha sollecitato il Majlis a mettere su un binario preferenziale un altro provvedimento, anch’esso fermo da otto anni, che trasforma in reati maggiori le violenze sessuali e fisiche contro le donne. Se ne sta discutendo in questi giorni.
Ciò che più stupisce, nella vicenda, sono state le reazioni non scontate degli ultraconservatori, pronti anche loro a prendere le distanze dalla tradizionale giurisprudenza religiosa. Il quotidiano di destra Farheekhtegan ha scritto che «una condanna al carcere» sarebbe una punizione «troppo indulgente». Kodra Khazali, la presidente del Comitato per le donne e la famiglia – divenuta famosa per le sue posizioni oltranziste contro chi voleva elevare al di sopra dei tredici anni l’età matrimoniale per le bambine, e per la sua opposizione all’ingresso di donne negli stadi – stavolta ha invocato «la pena di morte». La guida suprema, l’ayatollah Ali Khamanei, non ha parlato direttamente dell’omicidio di Romina, ma sul suo sito è stata riportata una sua frase risalente al 1997: «Qualsiasi violenza contro le donne deve essere punita con la massima severità».
«Insomma, il vento sta cambiando in Iran persino tra i conservatori. Anche loro non possono accettare che un padre uccida i figli. Cosa che forse poteva essere tacitamente ammessa fino a qualche decina di anni fa, ma non più ora», spiega un famoso avvocato iraniano, Mahmoud Alizadeh Tabatabaei.
Certo, non tutto muterà in un giorno. Si tratta comunque di fenomeni profondi, radicati specie nelle parti più remote e meno acculturate del Paese. Nemmeno la pena di morte, che molti purtroppo invocano in questi giorni, potrebbe forse essere un reale deterrente per chi uccide in nome di un concetto di patriarcato persistente nelle pieghe più profonde dell’Iran ed esacerbato dal fanatismo e dall’ignoranza.
Di casi come quello di Romina Ashrafi, ne avvengono centinaia all’anno in Iran, senza che raggiungano le prime pagine dei giornali. Restano nel segreto delle mura domestiche, nell’omertà di villaggi sperduti. Si calcola quasi un femminicidio al giorno, in un Paese di 83 milioni di persone. Ad una conferenza sulla Patologia del filicidio, tenuta a Teheran dopo l’uccisione di Romina, il sociologo Saeed Madani ha stimato che i delitti d’onore ammontino a circa il 20 per cento di tutti gli omicidi compiuti nella Repubblica islamica. È anche vero che, grazie all’ accesso ormai regolare ad Internet, persino in zone remote del Paese dove arrivano le reti 3G e 4G, vi è una generazione protagonista di un’evoluzione rapidissima negli ultimi sette anni.
«Quando scoppiano rivolte morali come quella per Romina, anche le autorità politiche non possono ignorare più la pressione popolare», osserva Tara Sepehri Far, attivista per i diritti umani.
Chissà se quella ragazzina dal sorriso simpatico, studentessa modello – la cui foto è apparsa dappertutto in Iran e all’estero tranne che, significativamente, al funerale nel suo villaggio – potrà diventare davvero il simbolo di un momento di svolta, di un punto di non ritorno. In Iran stavolta ci credono in tanti, e soprattutto le donne iraniane che, in una società piena di contraddizioni, sono anche l’elemento più dinamico della Repubblica islamica, la maggioranza di tutti i laureati, le scienziate, le vincitrici di premi Nobel, le capitane d’industria, le amministratici delegate di enti petroliferi, le vicepresidenti del Paese.