La sera del 14 luglio a Gerusalemme si sono vissute scene di guerriglia urbana. Circa 50 manifestanti sono stati arrestati in seguito agli scontri con la polizia in occasione di un raduno, a cui hanno partecipato migliaia di persone, nei pressi della residenza del primo ministro Benjamin Netanyahu (a due passi dal Terra Santa College dei francescani). I manifestanti chiedevano al premier, imputato di corruzione in vari processi, di dimettersi.
Alle proteste motivate dai guai giudiziari di Netanyahu si sono aggiunti i pesanti malumori che la gestione dell’emergenza Covid-19 sta suscitando nel Paese. A più riprese, sia a Gerusalemme che a Tel Aviv, si sono moltiplicate le proteste di lavoratori appartenenti a categorie non tutelate dagli ammortizzatori sociali previsti dal governo.
La manifestazione di martedì 14, terminata solo dopo l’una di notte con ripetute cariche dalla polizia, ha avuto una coda anche nella mattina del 15 luglio, con una raffica di arresti per disturbo della quiete pubblica, atti di vandalismo e aggressioni.
I manifestanti, soprattutto giovani, riuniti davanti alla residenza del primo ministro a Gerusalemme hanno bloccato le strade per ore. Dopo le cariche della polizia (anche con idranti e lacrimogeni) in migliaia hanno iniziato a marciare verso il centro città, bloccando la metropolitana leggera su Jaffa Street. Per evitare l’intervento delle forze dell’ordine, i manifestanti hanno accatastato sedie e tavoli presi dai vicini bar.
La crisi morde
Le proteste delle ultime ore si aggiungono ad una situazione interna che sta diventando sempre più critica. La crisi economica sta mettendo in ginocchio interi settori dell’economia israeliana, in primis quello turistico e dei servizi ad esso connessi. La disoccupazione sarebbe schizzata, dopo i mesi di lockdown, al 21 per cento. In questo contesto, alimentano il malcontento una serie di questioni non marginali. La prima riguarda la gestione della pandemia, che sta diventando sempre più critica, con oltre 370 morti e quasi 43 mila casi da febbraio ad oggi. Il governo israeliano avrebbe acquistato – secondo quanto riportato dalla stampa – 15mila ventilatori polmonari per circa 1 miliardo di shekel (pari ad oltre 250 milioni di euro), ma finora ne è stato fornito agli ospedali solo un piccolo numero. In aggiunta, i respiratori forniti sarebbero di scarsa qualità.
C’è poi il capitolo della corsa agli armamenti, che anche in un Paese da sempre abituato a vivere in armi, inizia a mostrare – mai come in questo momento – la sua insensatezza. Sono in arrivo dalla tedesca Thyssenkrupp Marine Systems quattro navi da guerra. E starebbe per entrare in servizio anche il sesto sommergibile della seconda Classe Dolphin, capace di lanciare anche missili con testate atomiche, realizzato sempre da aziende tedesche del gruppo Thyssen. Ognuno dei sottomarini ha un costo stimato di circa 600 milioni di euro.