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I martiri francescani fra gli armeni

Francesco Pistocchini
17 luglio 2020
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I martiri francescani fra gli armeni
Le tipiche croci di pietra (khachkar), simboli della fede in Armenia, nel cimitero di Noraduz. (foto G. Caffulli)

Tragica «coda» del genocidio armeno nell’impero ottomano in disfacimento, sette francescani della Custodia di Terra Santa furono uccisi con le loro comunità cattoliche nelle missioni in Armenia minore. I ricordi a un secolo dal loro martirio


Quanto è vero che i dolori continuamente s’alternano con le gioie», osserva amaramente il frate, redattore di questa stessa rivista, che ai suoi albori nel febbraio 1921 si riferiva ai festeggiamenti da poco conclusi per il centenario del viaggio di san Francesco in Oriente seguiti alle tragiche notizie degli eccidi nelle missioni in Asia minore.

Infatti, nelle fasi travagliate di passaggio dall’Impero ottomano alla Turchia moderna, alcuni frati della Custodia di Terra Santa trovarono la morte nei primi mesi del 1920. A cento anni da quelle stragi sono ricordati come martiri.

Nei villaggi intorno a Maraş (oggi Kharamanmaraş, in Turchia) gli armeni erano una minoranza, costituita dai pochi sopravvissuti al genocidio: di 56 mila solo circa duemila erano ritornati alle loro case e vivevano nella paura. La prima guerra mondiale era terminata. I vincitori europei della guerra smembrarono di fatto l’Impero ottomano, antico di sei secoli, disegnando vaste aree di influenza.

La Francia, oltre ad avere ottenuto il mandato su Libano e Siria, esercitava la sua influenza sull’Anatolia sud-orientale, tra cui la Cilicia. Ma la presenza di pochi militari francesi non garantiva sufficiente sicurezza ai cristiani nella regione.

Questa è la cornice in cui riprese l’attività missionaria dei frati minori, che erano stati impegnati per mezzo secolo fra le comunità armene cattoliche (perché tornate in comunione con Roma), ma erano stati espulsi durante il conflitto mondiale e desideravano tornare fra le comunità cristiane decimate, ma non annientate, durante il genocidio. Oltre che nella città di Maraş, la presenza pastorale toccava tre villaggi. I frati sapevano a quali pericoli andavano incontro: la convivenza tra armeni e turchi rimaneva difficile, gli armeni ad esempio evitavano di usare la loro lingua al di fuori delle abitazioni. L’ideologia nazionalista che aveva alimentato i massacri in tante aree  multietniche e multireligiose dell’Impero non aveva perso la sua forza. Bande di çeté (banditi), unite a truppe kemaliste, si davano a saccheggi e uccisioni.

Il primo a morire, all’età di 38 anni, fu padre Francesco Di Vittorio. Originario di Rutigliano, un borgo pugliese che aveva dato innumerevoli vocazioni ai francescani della Terra Santa, era stato ordinato prete nel 1906. Fu inviato dal Custode di Terra Santa in Asia minore per apprendere l’armeno e conoscere la cultura locale. Dopo qualche anno trascorso a Maraş fu mandato nel villaggio di Jenige-Kalé. Solo lo scoppio della guerra mondiale lo obbligò a partire. Ma il desiderio di vivere la sua missione di religioso con gli armeni lo riportò in Cilicia.

A Mudjuk Deresi padre Di Vittorio si dedicò alla nascita di un orfanotrofio per una trentina di minori, là dove la guerra del 1914-18 aveva lasciato solo rovine. Gli scontri tra turchi-ottomani e francesi, in quella che è chiamata la guerra di Cilicia, ripresero nel gennaio 1920. Armeni e missionari divennero bersaglio di chi li considerava collaborazionisti (oltre che infedeli agli occhi di molti musulmani).

Nei documenti raccolti, emerge come il frate pugliese fosse ben consapevole di rischiare il martirio. Ma desiderò riunire i cristiani e non abbandonare gli orfani. Con lui si trovavano due collaboratori, l’ungherese fra Alfredo Dollentz e fra Salvatore Sabatini, abruzzese. «I nostri tre confratelli – scriveva il Custode Ferdinando Diotallevi nel settembre 1920, dando notizia del loro martirio – dividevano gioie e dolori con i loro cristiani per i quali erano padri, medici, farmacisti, maestri, sacerdoti, non essendovi altra autorità che quella del missionario».

La loro fine è legata a un inganno: le violenze scoppiarono il 21 gennaio. Un capo villaggio musulmano offrì ospitalità al frate, ai collaboratori e agli orfani, ma la sera del 23 gennaio li consegnò a chi ne fece strage. La chiesa e l’ospizio furono incendiati, le case dei cristiani saccheggiate.

In un altro villaggio diversi armeni furono bruciati vivi insieme a padre Stefano Jalinkatian, nativo di Maraş, che era il superiore della missione e la cui casa fu data alle fiamme. Un altro giovane confratello armeno, Giuseppe Achillian, in fuga per duecento chilometri con i superstiti, morì poco dopo ad Adana.

A Ienidjé Kalé fu trucidato padre Alberto Amarisse, originario di Cave (Roma). Aveva 46 anni. Lo scorso gennaio a Cave è stato ricordato questo testimone della fede con un convegno e una celebrazione. Il vescovo di Palestrina, monsignor Mauro Parmeggiani, ha ricordato le parole di san Giovanni Paolo II che definì il Ventesimo secolo come secolo dell’ecumenismo del sangue, in cui tanti hanno sacrificato la loro vita, sono stati martiri e riflesso dell’amore di Dio per noi.

A loro si unì nel martirio in quei mesi tragici padre Leopoldo Bellucci, 39 anni, marchigiano di Osimo, insegnante nella scuola della Custodia ad Aleppo, che nell’agosto 1920 fu ucciso in un assalto di beduini mentre viaggiava in treno da Damasco a Haifa.

Non è facile istruire le cause di beatificazione per questi martiri, per la distanza nel tempo, la scarsità di documenti, le condizioni tormentate in cui si svolsero quelle vicende. Ma la loro testimonianza, a un secolo di distanza, merita di essere conosciuta, per l’attaccamento alla vocazione e l’amore per i fratelli armeni.

In una commemorazione funebre a Gerusalemme poco dopo le stragi, padre Teodosio Somigli affermava: «I nostri uccisi sono la sanguinosa e gloriosa risposta a chi si domandava: che cosa fanno ormai i francescani in Terra Santa? Muoiono, o signori, i francescani di Terra Santa e muoiono per la loro missione e il loro dovere».

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