Con una sentenza del 24 giugno scorso il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha rigettato l’istanza del Patriarcato greco-ortodosso che chiedeva di bloccare in extremis il trasferimento di tre sue proprietà immobiliari all’organizzazione ebraica Ateret Cohanim, impegnata ad acquisire edifici del centro storico di Gerusalemme così da ridimensionare la presenza araba.
La compravendita in questione risale al 2004 e riguarda tre edifici, due dei quali – l’Hotel Petra e l’Hotel Imperial – sorgono nei pressi della Porta di Jaffa, principale via d’accesso ai quartieri cristiano e armeno. L’operazione venne perfezionata quando era patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme Ireneos I, che proprio per questa ragione fu duramente contestato e rimosso dall’incarico. Il successore Theophilos III ricorse subito in tribunale adducendo irregolarità amministrative e la presunta corruzione di funzionari del Patriarcato. Negli ultimi sedici anni il caso è stato discusso in numerosi tribunali israeliani, fino alla Corte suprema. Tutti hanno confermato la validità della compravendita.
Il tentativo del Patriarcato di far riaprire il caso alla luce di nuove prove dell’avvenuta corruzione è stato rifiutato dai giudici, perché gli elementi prodotti erano già noti all’epoca dei precedenti processi. Il Patriarcato greco-ortodosso non si rassegna e ancora una volta ha ottenuto il sostegno pubblico dei capi delle Chiese di Terra Santa, che si sono espressi con un comunicato pubblico del 7 luglio scorso. In un passaggio centrale vi leggiamo: «Questo caso non riguarda solo la Chiesa greco-ortodossa e le sue proprietà. Reca danno anche a quella natura di pacifica coesistenza tra comunità che caratterizza Gerusalemme. Chiediamo al governo israeliano di salvaguardare l’integrità del patrimonio cristiano e della città vecchia, insieme ai Luoghi Santi e ai diritti dei residenti del quartiere cristiano di Gerusalemme».
L’alienazione di proprietà delle Chiese è un tema sensibile, che tocca nervi scoperti del conflitto israelo-palestinese. I cristiani locali, per lo più arabi, detestano ogni cessione a ebrei israeliani di immobili o terreni.
Il riflesso condizionato della contestazione aperta scatta tanto più facilmente se a decidere la vendita sono ecclesiastici «stranieri»: è successo nel 2017 al patriarca Theophilos III (greco), contestato con presidi pubblici per l’alienazione di proprietà a Tel Aviv, Gerusalemme e Cesarea Marittima. Nelle settimane scorse è toccato all’amministratore apostolico del Patriarcato latino, l’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, criticato sui media locali arabi per aver posto in vendita un pregiato lotto di terra a Nazaret (acquisito da un uomo d’affari arabo). Il 12 giugno il presule ha risposto alle critiche con un comunicato netto che evidenzia lo stato delle finanze diocesane, gravate da almeno 100 milioni di dollari di debiti verso le banche. Debiti contratti dai responsabili palestinesi della curia diocesana sotto l’episcopato di mons. Fouad Twal per edificare un ateneo cattolico in Giordania: l’Università americana di Madaba, inaugurata nel 2013. Pizzaballa sottolinea di essere stato nominato amministratore apostolico nel 2016 anche per sanare i problemi finanziari. Tutte le strade sono state battute, a partire dalla riorganizzazione dei servizi amministrativi della curia. Era chiaro sin dall’inizio che, prima o poi, sarebbe stato necessario reperire risorse straordinarie alienando parti del patrimonio. D’altronde – osserva l’arcivescovo – i debiti vanno onorati e non è giusto affidarsi solo alla solidarietà internazionale.
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