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Arabi ed ebrei periferici accomunati dal coronavirus

Giorgio Bernardelli
9 luglio 2020
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Dove sta colpendo maggiormente in Israele il Covid-19? In due contesti ben precisi: nei quartieri arabi di Gerusalemme e (ancora di più) in quelli degli haredi, i religiosi ultra-ortodossi.


L’allarme è scattato ormai da giorni: Israele e la Palestina sono precipitati di nuovo nell’emergenza coronavirus con una seconda ondata estiva di contagi che – come Terrasanta.net racconta già – si sta rivelando ancora più intensa della prima.

Dentro a questo scenario generale c’è però un aspetto particolare su cui è interessante soffermare l’attenzione: dove sta colpendo maggiormente in Israele il Covid-19? In due contesti ben precisi: nei quartieri arabi e (ancora di più) in quelli degli haredi, i religiosi ultra-ortodossi. A raccontarlo è in particolare un articolo di The Times of Israel che qualche giorno fa tracciava la mappa del contagio a Gerusalemme, citando espressamente Mea Shearim, Geulah, Mekor Baruch, Sanhedria (le roccaforti degli haredi) accanto a Gerusalemme Est. E spiegando che su 160 nuovi casi di coronavirus registrati nelle ultime 24 ore nella Città Santa 114 provenivano dalla somma di questi quartieri.

La notizia in sé non sorprende più di tanto: chiunque conosca un po’ Gerusalemme sa che i quartieri degli haredi e quelli arabi di Gerusalemme Est sono accomunati da ampie sacche di povertà, che è forse l’unico volto realmente unificante della Gerusalemme di oggi. Del resto in tante aree del mondo il coronavirus sta colpendo in maniera più dura le baraccopoli e le altre zone dove le condizioni abitative sono più precarie e i presidi sanitari meno diffusi. Va aggiunto che contro gli haredi gioca anche la riottosità di tanti leader a imporre l’ubbidienza alle misure del distanziamento sociale, specie per quel che riguarda le cerimonie religiose.

E il Covid-19 sta ancora una volta mostrando tutte le contraddizioni nel rapporto tra gli haredi e le istituzioni dello Stato di Israele, specie là dove si vengono a creare problemi di compatibilità con l’halakha, cioè con il sistema di regole a cui ogni ebreo ultra-ortodosso si attiene scrupolosamente.

Detto questo, però, ridurre la diffusione del coronavirus in Israele a una questione di «fanatismo» è un’operazione parecchio ingenerosa. Che si innesta sul tema più ampio del rapporto tra laici e religiosi, nervo da tempo scoperto all’interno della società israeliana. Quel mondo laico israeliano che mal sopporta le rendite di posizione ottenute dallo Shas e da Giudaismo unito nella Torah (i due partiti religiosi dei sefarditi e degli ashkenaziti) grazie all’importanza dei loro voti nell’alleanza con Netanyahu, oggi grida all’untore nei confronti degli haredi. Esattamente come per gli arabi israeliani, li guarda come qualcosa di «estraneo». Senza capire che proprio l’inclusione anche a livello sociale del mondo degli ultra-ortodossi è una delle grandi sfide intorno a cui si gioca l’identità di Israele domani. E senza ricordarsi che l’alleanza con la destra non è un destino ineluttabile per i religiosi: negli anni Novanta lo stesso Yitzhak Rabin, pur tra non poche difficoltà, governò con lo Shas nella sua maggioranza. Ma soprattutto vi erano anche forze come Meimad, un partito religioso che guardava dichiaratamente a sinistra e il cui esponente più noto era il rabbino Michael Melchior. Una parte non indifferente del suicidio della sinistra moderata in Israele è stato proprio regalare a priori questo mondo nella sua interezza a Netanyahu e alla sua destra nazionalista.

Che cosa hanno ottenuto, però, dall’adesione a questo blocco di potere i religiosi? Proprio il Covid-19 sta sollevando un grande punto di domanda. Perché alla fine il coronavirus sta squarciando il velo su quanto nell’Israele apparentemente più scintillante gli haredi restino comunque ai margini. Ripagati con un po’ di soldi per le loro yeshiva e qualche divieto di natura religiosa imposto a tutti, ma pur sempre confinati nel loro recinto.

Non stupisce – allora – che chi più di tutti sta lanciando segnali nei loro confronti sia il leader della Lista Araba, Ayman Odeh. Perché in realtà i punti di contatto tra arabi israeliani e haredi sono molto più numerosi di quanto si potrebbe pensare. Due tra tutti: sono entrambi gruppi sociali in forte crescita numerica ed entrambi fortemente vittime di pregiudizi. Mea Sherim e Gerusalemme Est sono più vicine tra loro che a Tel Aviv e agli insediamenti della Valle del Giordano. Il giorno che – oltre al coronavirus – se ne accorgerà anche l’israeliano medio, forse potrà iniziare davvero la riflessione sul futuro di questa terra.

Clicca qui per leggere l’articolo di The Times of Israel sui quartieri ultra-ortodossi e arabi come epicentro del Covid-19 a Gerusalemme

Clicca qui per leggere quest’analisi dell’Israel Democracy Institute sul coronavirus nelle comunità degli arabi e degli haredi


 

Perché La Porta di Jaffa

A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.

 

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