Arabpop è la dimostrazione concreta – ossia fatta di parole, versi, quadri, graffiti, fumetti, arte visiva e performance – che le rivoluzioni arabe del 2011 non sono state, come continuano a sostenere alcuni, delle messe in scena volute da una minoranza politica islamista foraggiata da Turchia e Paesi del Golfo con la benedizione dell’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Perché, se l’arte è piena espressione di ciò che spesso non si può dire altrimenti, bene hanno fatto Comito e Moresi, curatrici di questo volume collettaneo, a mettere in fila tutto quel che queste rivoluzioni hanno prodotto in termini di espressione politica, nel senso più classico del termine, a partire dalle piazze, da quello che succede nelle piazze, da ciò che si canta o si declama in piazza, a ciò che si scrive o si disegna sui muri, i monumenti, al ricordo di questi luoghi e dei loro protagonisti.
La particolarità del volume è l’arte di mettere in fila, con una serie di pregevoli saggi, tutti i segni e i segnali di questa storia recente e di questa memoria, e così si scopre che la sua portata è decisiva e segna una svolta senza retrocessioni in queste società, anche se la storia di alcuni di questi Paesi (l’Egitto su tutti) sembra dirci il contrario.
Il comune denominatore di queste istanze è l’appropriazione dello spazio pubblico e la valorizzazione, pluralizzazione e moltiplicazione di esso in varie forme d’arte dove, in un dibattito anche acceso o violento, chi manifesta rivendica la necessità di una cultura pop. Dove pop non va inteso nel senso occidentale di arte iper-realista, ma va letto esattamente nel senso di popolare, di espressione dal basso, possibilmente di chi è povero e preme alle porte di una società ingiusta.
Esemplare è in questo senso il racconto, affidato a Luce Laquaniti, del collettivo tunisino Zwewla, un gruppo di writers anonimi formato nel 2012 che si firma con la Z e si propone di far valere le rivendicazioni delle classi povere, dei miserabili, dei nullatenenti (appunto zwewla in dialetto tunisino) e che, in questo anonimato dal segno di Zorro, rivendica l’attenzione sul messaggio, sulla possibilità degli emarginati e degli esclusi di auto-rappresentarsi in varie forme d’arte urbana e/o di strada. In sostanza, chi condivide il messaggio del collettivo è invitato a lasciare graffiti, secondo la sua creatività, firmandosi con la Z e non c’è migliore formula per rendere un collettivo “popolare”, riappropriandosi dello spazio pubblico.
Sempre Laquaniti racconta come, in questo spazio pubblico, e non solo in Medio Oriente, sia stato possibile, a seconda delle fasi di queste rivoluzioni e/o dei gruppi maggioritari, intervenire, come in un palinsesto urbano, sui graffiti originari: è il caso di molti graffiti della rivoluzione siriana con slogan scritti e sovrascritti prima dagli oppositori del presidente Bashar al Assad e poi dai suoi sostenitori; oppure è visibile nell’opera del writer Ganzeer sotto un ponte del Cairo, dove un carro armato viene affrontato da un ragazzino in bicicletta che trasporta un vassoio di pane, più volte modificato da fazioni pro-esercito e anti-esercito, con simboli ulteriori e contrastanti.
Questa arte visiva ha anche la stessa continuità in altri luoghi meno popolari, come le gallerie d’arte di Dubai e di Doha che hanno ormai preso il posto del Cairo e di Beirut come capitali dell’arte del Medio Oriente. Arte che viene valutata in migliaia di dollari, ma dove, ad essere ospitati sono artisti della diaspora (siriani, palestinesi, algerini, egiziani) che utilizzano icone della cultura araba, come la cantante Umm Kultum – così come Andy Wharol usava l’immagine di Marilyn Monroe – ma senza dimenticare una dimensione militante, critica verso l’orientalismo coloniale e che spesso decontestualizza situazioni di guerra e di violenza per arricchirle di ulteriori significati, di lotta o rinascita, come fa il siriano Tammam Azzam, autore della famosa riedizione del bacio di Klimt sulle rovine di Aleppo.
Sopra ognuna di queste espressioni e delle molte altre analizzate nel saggio, dalle più tradizionali (come la poesia), alle più moderne (come il fumetto), giganteggia il desiderio di coltivare la memoria, di praticarla e proseguirla nel discorso artistico e critico, per farla sedimentare e, in un prossimo futuro, preparare la piazza alla rinascita. Non a caso il tema della memoria è funzionale all’occupazione «popolare» dello spazio pubblico e alla possibilità di continuare ad affermare – come dice un noto slogan – che «la rivoluzione continua». Perché in questi Paesi – e lo vediamo anche in questi giorni – la rivoluzione non si è davvero (o non si è ancora) compiuta.
a cura di Chiara Comito e Silvia Moresi
Arabpop
Arte e letteratura in rivolta nei Paesi arabi
Mimesis Edizioni, 2020
pp. 224 – 18,00 euro