Ufficialmente le monarchie del golfo Persico sono contro l'annessione israeliana degli insediamenti che sorgono in Cisgiordania, prevista per il primo luglio 2020. Ma il loro è un "no" sommesso. Di fatto, i buoni rapporti con Israele hanno la meglio sui sogni palestinesi.
Il primo luglio è alle porte. In quella data – secondo il programma che Benjamin “Bibi” Netanyahu (al quinto mandato da premier, il quarto consecutivo) ha concordato con l’ex rivale Binyamin “Benny” Gantz al momento di formare il nuovo governo – dovrebbe prendere il via l’annessione delle aree della Cisgiordania in cui Israele ha costruito i suoi 132 insediamenti, tuttora considerati illegali dalla comunità internazionale.
Contro l’annessione si sono già espressi il presidente palestinese Mahmoud Abbas, ovviamente, ma anche il re di Giordania Abdallah II, la Lega Araba (22 Paesi rappresentati) e la gran parte dei Paesi europei. Joe Biden, rivale di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca, ha annunciato che, se diventerà presidente degli Stati Uniti, non riconoscerà un’eventuale annessione da parte di Israele.
Di tutto questo a Bibi e Benny importa poco. Abbas e i palestinesi sono impotenti. La Giordania è un protettorato americano e il re non oserà muovere un dito. La Lega Araba è divisa all’interno e i suoi membri, tra minacce dell’integralismo islamista e crisi economica, hanno pochissimo margine di manovra. I Paesi europei sono contrari all’annessione ma in questi anni hanno fatto di tutto per favorirla, rinunciando a qualunque iniziativa nei confronti di Israele. Anzi, cercando di intimidire coloro (per esempio gli attivisti della campagna Bds, Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) che andavano in senso contrario.
E gli Usa? Non rinunceranno mai ad appoggiare lo Stato ebraico, qualunque cosa dicano i governanti americani o facciano quelli israeliani. Biden ora alza la voce ma da presidente che cosa potrebbe fare? Riportare l’ambasciata a Tel Aviv, rovesciando le decisioni di Trump? Barack Obama e Netanyahu non si sopportavano ma fu il primo a rimetterci. Bibi andò a concionare contro di lui nello stesso Congresso di Washington e Obama dovette comunque prolungare nel tempo e aumentare nell’importo il finanziamento americano alla difesa di Israele.
Molto più interessante, per il governo di Israele, sono i consistenti spiragli di distensione che, negli ultimi tempi, si sono aperti con i Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, in particolare con Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Oman. Da parte loro qualche dichiarazione di circostanza contro l’annessione, sovrastata da fatti ben più significativi. Per esempio, la visita ufficiale di Stato di Netanyahu nell’Oman, meno di due anni fa; il rifiorire di una piccola comunità ebraica a Dubai, capitale degli Emirati e città in cui è in allestimento il padiglione di Israele per l’Expo del prossimo anno; i contatti tra il Qatar, dove nel 2022 si disputerà il campionato mondiale di calcio, e le autorità religiose ebraiche americane per assicurare cibi kosher ad atleti e tifosi.
Uno dei passi più clamorosi, inoltre, è stato compiuto dagli Emirati Arabi Uniti. Poco tempo fa hanno inviato due aerei carichi di aiuti per i palestinesi della Cisgiordania alle prese con la pandemia. Aerei che però sono atterrati all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, con il primo volo ufficiale tra Emirati e Israele. Un primo riconoscimento reciproco e uno schiaffo per il leader palestinese Mahmoud Abbas, che infatti ha rifiutato gli aiuti.
Non si tratta di amicizia o di un’improvvisa riscoperta del senso di tolleranza, ma di precise convenienze politiche ed economiche. I Paesi del Consiglio del Golfo e Israele condividono la stessa preoccupazione per l’Iran, e non è poco. Poi c’è il comune interesse per il piano di pace presentato a inizio anno da Donald Trump. Esso prevede, tra l’altro, di spendere 50 miliardi di dollari per ricostruire la Palestina. Ovvero, un mare di appalti in cui le aziende israeliane e quelle del Golfo faranno la parte del leone. Infine, una buona relazione con Israele ha molto da offrire ai Paesi del Consiglio. Tecnologia (anche per il controllo interno; questi Stati tutto sono tranne che democrazie), intelligence contro l’estremismo islamista, competenze agricole (gli israeliani sono maestri nel far fiorire il deserto) e mediche, preziose in tempi di coronavirus. Non a caso è già partita una collaborazione ufficiale tra i ministeri della Salute di Israele e degli Emirati.
Certo, Netanyahu dovrà dar loro una mano, almeno dal punto di vista del marketing politico. Con tutta la buona volontà, sauditi, qatarini ed emiratini sarebbero in difficoltà di fronte a un’annessione brutale, magari condotta con violenza. Ma a Bibi non manca certo l’astuzia e qualcosa saprà inventare.
Perché Babylon
Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.
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Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com