Secondo l'accordo che ha dato vita all'attuale governo israeliano, tra poco più di tre settimane il premier Benjamin Netanyahu potrebbe portare al voto in parlamento l'annessione di ampie parti della Cisgiordania. Come andrà a finire, ancora non si sa. Ecco perché.
Si avvicina la data fatidica del primo luglio, il giorno in cui – secondo il complicatissimo accordo che ha portato alla nascita del governo in Israele – il primo ministro Benjamin Netanyahu potrà portare al voto in parlamento l’annessione degli insediamenti in Cisgiordania. È la mossa che sulla carta dovrebbe diventare l’eredità politica di «re Bibi», l’uomo che ha sconfitto il processo di pace avviato ad Oslo nel 1993 e intorno a cui da ormai quasi vent’anni ruota la politica israeliana. Più si avvicina l’«appuntamento con la storia», però, e più Netanyahu si sta accorgendo di ritrovarsi di fronte all’ennesimo rompicapo.
A preoccuparlo non sono evidentemente le migliaia di persone che sabato sono scese in piazza Rabin a Tel Aviv per la manifestazione organizzata insieme da ciò che resta della sinistra pacifista e dalla Lista Araba. E neppure i sondaggi che non sembrano mostrare particolare entusiasmo nell’opinione pubblica israeliana per un’annessione unilaterale. No, il vero problema per Netanyahu sta altrove: nell’opposizione decisa che da destra i vertici del movimento dei coloni e il partito a loro più vicino – Yamina, la formazione dell’ex ministro della difesa Naftali Bennett e dell’ex ministro della giustizia Ayelet Shaked – stanno portando al provvedimento che vorrebbe tradurre già subito in legge quanto scritto sugli insediamenti nel Piano di Trump.
Perché proprio i coloni adesso sono contro un provvedimento che sembrerebbe fatto su misura per loro? Perché di un ipotetico Stato palestinese – anche se reso fantasma dalle clausole previste dal cosiddetto “Accordo del secolo” – non vogliono neppure sentir parlare. Sostengono che un voto oggi all’annessione degli insediamenti sarebbe anche un voto allo Stato palestinese previsto dal Piano di Trump. Per cercare di convincerli Netanyahu sta ripetendo a più non posso che le cose non stanno così e che nelle mappe che sta preparando l’annessione riguarderebbe «la più vasta estensione di territori possibile». Ma i leader dei coloni continuano a rispondergli picche. E Naftali Bennett ed Ayelet Shaked – che sono rimasti fuori dal governo Netanyahu-Gantz proprio per tenersi le mani libere – non stanno facendo nulla per togliere le castagne dal fuoco al leader della destra.
Non bastasse questo anche a Washington sono tutt’altro che entusiasti riguardo al voto alla Knesset sull’annessione. Certamente se n’è parlato durante la visita che il segretario di Stato Mike Pompeo ha compiuto in Israele qualche settimana fa. Ma la Casa Bianca – con tutti i fronti attualmente aperti – oggi non ha alcun interesse ad entrare sul serio in quello su Israele e Palestina. Anche perché i segnali lanciati dall’Arabia Saudita e dagli altri alleati nel mondo arabo sono chiari: no a qualsiasi azione unilaterale da parte di Israele. In più c’è un altro dato che suona abbastanza evidente: l’unica vera ragione per forzare la mano portando al voto il primo luglio un provvedimento che affosserebbe il resto del Piano svelato a gennaio dalla Casa Bianca è il timore che Trump abbia ormai i giorni contati e dunque Israele non possa perdere un’occasione storica. Ma questa è un’altra idea che non dovrebbe piacere moltissimo a uno come Donald Trump. Pensando anche a questo qualche giorno fa il direttore di The Times of Israel, David Horovitz, scriveva che forse la soluzione più comoda per Bibi sarebbe un bel tweet con un pollice verso firmato personalmente dall’inquilino della Casa Bianca.
Come finirà, allora? Ormai dovremmo aver capito che con la politica israeliana è impossibile fare previsioni. Ma ciò che possiamo dire è che la partita è molto più complicata di quanto sembri. Dentro al suo partito, il Likud, il soprannome di Netanyahu è «il mago» ed effettivamente re Bibi ha dimostrato più di una volta di saper tirare fuori il coniglio dal cilindro. Ora ha caricato di grandi aspettative la data del primo luglio ed è dunque difficile pensare che faccia marcia indietro. «Annessione» – però – può voler dire anche cose tra loro diverse. Un conto – ad esempio – è andare alla Knesset con delle mappe, un altro è far passare un provvedimento bandiera, molto altisonante, ma senza andare oltre la ratifica dell’esistente. Bibi stesso probabilmente oggi come oggi non ha ancora deciso e studia il manuale dei giochi di prestigio.
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Perché La Porta di Jaffa
A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.