Stati Uniti, Arabia Saudita e Russia nelle ultime settimane si sono confrontati con asprezza sul prezzo del greggio. Alla fine Trump è riuscito a imporre un taglio della produzione per arginare l'eccessivo ribasso, dannoso per i petrolieri americani. Resta decisiva l'alleanza Washington-Riyadh.
Passerà alla storia la telefonata del 2 aprile scorso tra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il principe saudita Mohammed bin-Salman? Quando si proverà a ricostruire questo 2020 all’insegna della pandemia e della crisi economica, quel colloquio (così intenso e tirato da spingere il principe, come raccontano i bene informati, ad allontanare i propri consiglieri per parlare più liberamente) di sicuro tornerà in ballo.
Facciamo un passo indietro. Ai primi di marzo, a Vienna, si consuma la rottura tra l’Opec (l’associazione tra i Paesi produttori di petrolio, a trazione saudita) e la Russia. L’Arabia Saudita aveva proposto un taglio alla produzione per far risalire il prezzo del greggio. La Russia aveva rifiutato. Un errore drammatico, quello di Mosca. Per due ragioni. La prima è che, per rappresaglia, i sauditi avevano inondato il mercato di petrolio, facendo crollare il prezzo (dai 56 dollari a barile di febbraio ai 23 di oggi) proprio mentre il coronavirus spingeva la Russia verso la recessione. La seconda è che un mese dopo, quando il Cremlino era tornato sui propri passi e aveva accettato l’accordo, il taglio concordato da 10 milioni di barili al giorno non bastava più. Il virus aveva azzoppato le economie di Cina e Usa, motori dello sviluppo mondiale, e la richiesta di petrolio era già calata di quasi 30 milioni di barili al giorno.
Da qui l’intervento di Trump, a sua volta alle prese con lo sprofondo dell’industria petrolifera americana, soprattutto della miriade di piccole imprese che estraggono petrolio dalle rocce e dalle sabbie, che facevano pressione sui loro rappresentanti al Congresso e al Senato perché fermassero in qualche modo l’Arabia Saudita. E proprio questo Trump ha detto a Bin-Salman: se insisti con la guerra del prezzo non riuscirò a fermare il Senato e la reazione potrebbe spingersi fino a ritirare le truppe americane di stanza in Arabia Saudita. Sottinteso: e poi con l’Iran te la vedi tu. Nello stesso tempo, il presidente americano lavorava per riportare Vladimir Putin al tavolo della trattativa.
Alla fine del giro e dei rimbalzi tra Washington, Mosca e Riyadh, una cosa però è emersa con chiarezza. E cioè, che l’alleanza con l’Arabia Saudita è tuttora decisiva per gli Stati Uniti. Nel quadro di una recessione sulla cui profondità e durata nessuno si sente di azzardare previsioni, il controllo del mercato dell’energia sarà una leva decisiva. E gli Usa, senza o contro l’Arabia Saudita, non possono esercitarlo appieno. E poi ci sono tutti gli aspetti della politica regionale, che per gli Usa sono questioni di sicurezza nazionale, da tenere in conto. Dal confronto con l’Iran al blocco saudita contro il Qatar, Paese con cui gli Usa hanno ottime relazioni. Dalla questione siriana ai rapporti con la Turchia. Dal terrorismo islamista alle relazioni tra Israele e i palestinesi. L’agenda americana è fitta di problemi a cui i sauditi sono in qualche modo chiamati a partecipare in un ruolo tutt’altro che secondario.
Per cui, a dispetto forse delle apparenze, l’intervento di Trump ha segnato una vittoria per Mohammed bin-Salman. Putin ha accettato l’accordo che un mese prima aveva rifiutato. Il rapporto con gli Usa è stato rinsaldato mentre l’industria petrolifera americana andava in affanno, e sarà ancora più saldo nei prossimi mesi, quando cioè si deciderà quale politica energetica dovrà sostenere la ripresa post-virus. Il tutto in un quadro in cui le enormi riserve valutarie saudite possono sostenere la caduta del prezzo del petrolio più a lungo di quelle della Russia. In più, si intensificano le voci secondo cui Mohammed bin-Salman voglia presentarsi al prossimo G20, in programma il 21 e 22 novembre proprio nella capitale saudita Riyadh, non più nelle vesti del principe ereditario, ma in quelle del monarca. Essere uscito bene da questi confronti rende l’ipotesi sempre più plausibile.
Perché Babylon
Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.
—
Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com