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Un Nobel nella tempesta

Laura Silvia Battaglia
14 maggio 2020
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La yemenita Tawakkol Karman, premio Nobel per la pace 2011 e militante dei Fratelli musulmani, è stata chiamata da Mark Zuckerberg a far parte del neonato Consiglio di sorveglianza di Facebook. Sui social arabi si è scatenato l'inferno...


Grandi polemiche sui social media ha suscitato la notizia della nomina nel Consiglio di sorveglianza di Facebook dell’attivista yemenita e premio Nobel per la Pace (2011) Tawakkol Karman.

Si tratta di una nomina di un certo peso, considerato che Karman è la prima musulmana – e insieme donna, velata e Nobel per la pace – a fare ingresso in un consiglio-chiave appena formato per “calmierare” e “trattare” una serie di contenuti specifici pubblicati da utenti singoli e gruppi sui profili delle due piattaforme social integrate, Facebook e Instagram. Il Consiglio di sorveglianza è formato in tutto da venti membri, tra cui giornalisti, avvocati e anche un ex primo ministro danese, ed è stato annunciato una settimana fa dal fondatore Mark Zuckerberg con queste parole: «Facebook non può prendere da solo decisioni importanti in merito alla libertà di espressione e alla sicurezza».

La Karman ha risposto entusiasta alla scelta di Zuckerberg con un Tweet: «Sono orgogliosa della diversità tra i membri del consiglio di sorveglianza di Facebook e Instagram. Le nostre prospettive globali specifiche in contesti diversi e da punti di vista professionali, culturali, politici e religiosi diversificati sono importanti tanto quanto il nostro lavoro».

Subito dopo la diffusione della notizia, alcuni media e think-tank americani (uno fra tutti, l’Investigative Project on Terrorism, diretto da Steven Emerson) hanno lanciato l’allarme: «Perché, su 1,7 miliardi di musulmani nel mondo, Facebook sta mettendo un’islamista nel suo consiglio di sorveglianza?» si è chiesta l’avvocata per i diritti umani e analista per la sicurezza nazionale americana Irina Tsukerman.

Il punto è che per molti – soprattutto per la destra americana e i sostenitori di Donald Trump – sarebbe inaudito che Tawakkol Karman faccia parte di questo consiglio di sorveglianza, in quanto rappresentante – oltre che affiliata per familiarità tribale – del partito dei Fratelli musulmani yemeniti, al-Islah. La Karman, secondo i detrattori, non sarebbe per nulla adatta a questo ruolo, considerato oltretutto che, da quando ha ottenuto la cittadinanza onoraria dalla Turchia, ha fondato nel Paese il media Belqis-tv, considerato una fonte molto parziale e rappresentativa solo della visione dei Fratelli Musulmani sulla guerra in Yemen e sulla politica del Paese e del Medio Oriente.

Le critiche a Tawakool non finiscono qui. Della sua nomina si sono lamentati molti attivisti yemeniti che sulla guerra e sulla politica in Yemen hanno una visione non assimilabile a quella dei Fratelli musulmani. Kamel Al Khodani, giornalista yemenita e attivista per i diritti umani, ha dichiarato di avere la certezza che il suo account «sarà il primo a essere sospeso». E ha aggiunto: «Averla scelta è una catastrofe: Karman ha bloccato metà degli yemeniti sul suo account e non accetta alcuna critica o differenza di opinione mentre coltiva un certo rancore e lavora per un’agenda politica specifica. La metà degli account degli yemeniti verrà chiuso».

Altri puntano il dito sul suo linguaggio che non ammette mezzi termini. Karman non è mai stata tenera con il principe saudita Mohammed bin Salman da lei più volte definito «criminale», a proposito del delitto del giornalista saudita Jamal Khashoggi. E ne ha avute anche per il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, più volte definito killer, a proposito del massacro dei sostenitori dell’ex presidente Mohammed Morsi di fronte alla moschea di Rabaa al Addawyya nel 2013. Anche gli indicatori linguistici sulla questione israelo-palestinese chiariscono la posizione di Karman: decisamente avversa all’asse Stati Uniti/Israele e ai loro alleati mediorientali: Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

Negli ultimi quattro giorni la questione si è complicata parecchio. In un post su Twitter di lunedì 11 maggio, Karman ha dichiarato: «In questo momento sono oggetto di bullismo diffuso e di una campagna diffamatoria da parte dei media sauditi e dei loro alleati». Il premio Nobel si riferisce in particolare a un editoriale pubblicato dal quotidiano saudita Arab News che l’ha definita, «una personalità dittatoriale che avrebbe invitato i giovani manifestanti yemeniti a marciare verso la morte durante la rivoluzione del 2011». Anche il quotidiano degli Emirati Arabi Uniti Al-Ain si è unito al coro delle critiche a Karman, affermando che Facebook con questa nomina è diventato «un palcoscenico per la trasmissione dell’odio».

Su Twitter, una serie di account-bot sauditi ha pubblicato vignette contro la Karman, criticando ferocemente il suo legame con i Fratelli Musulmani. Infine, i troll on line hanno sfidato direttamente Zuckerberg, minacciando Facebook di cancellare i loro account in risposta alla nomina della donna al Consiglio di supervisione dell’azienda. La campagna di denigrazione è stata portata avanti usando gli hashtag #Delete_Facebook_because_of_Tawakkol_Karman e #I_reject_the_Facebook_Oversight_Board.

L’organizzazione yemenita per i diritti umani SAM for Rights and Liberties ha già condannato la campagna social contro Karman, affermando che «personalità vicine ai sovrani dell’Arabia Saudita e degli Emirati, nonché giornali e canali satellitari finanziati da questi due governi si sono uniti in una campagna di hate speech organizzata, e dai dati raccolti questa non può essere considerata una normale manifestazione di espressione responsabile dell’opinione pubblica».

Per Tawakool Karman non è la prima volta. Era già stata presa di mira da Project Raven, un’operazione di hacking partita dagli Emirati Arabi Uniti, che era riuscita a sabotare con successo il suo iPhone, esattamente come, tempo dopo, era accaduto al proprietario di Amazon e del Washington Post, Jeff Bezos, il cui sistema di messaggistica Whatsapp, secondo un’inchiesta del quotidiano inglese The Guardian, era stato infettato da uno spyware prodotto dall’azienda israeliana Nso su richiesta del principe ereditario saudita.


 

Perché Diwan

La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.

Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.

Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).

Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).

Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).

 

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