Non aveva previsto un incontro tanto ravvicinato con il coronavirus durante la sua tournée statunitense. Tornata a casa anzitempo, Noam si è ritrovata nel ruolo di paziente (non troppo grave). Un'esperienza inattesa sotto molti punti di vista per questa giovane donna di spettacolo nata e cresciuta a Neve Shalom Wahat al-Salam, in Israele
«Un viaggio folle». Tre parole per definire la sua esperienza come paziente Covid-19. A sceglierle è Noam Shuster Eliassi, trentaduenne attrice comica e attivista israeliana che i lettori di Terrasanta.net già conoscono.
Nominata nel 2018 a Londra New Jewish Comedian of the Year e prima attrice ebrea a calcare, nello stesso anno, le scene del Palestine Comedy Festival, Noam, che si esibisce in ebraico, arabo e inglese, si muove da sempre con naturalezza tra il mondo ebraico e quello arabo. Cercando di «tenerli insieme».
Il suo viaggio nella malattia inizia ad aprile, al rientro in Israele dopo un periodo fitto di spettacoli e di eventi negli Stati Uniti. Dall’Università di Harvard al palcoscenico del Kennedy Center di Washington, in programma per maggio: un sogno realizzato e bruscamente interrotto dallo scoppio della pandemia.
Al ritorno a casa, nel villaggio di Neve Shalom Wahat al-Salam (l’unica comunità oggi in Israele nella quale vivono insieme per scelta famiglie ebree e arabe di cittadinanza israeliana), i sintomi del coronavirus, l’affanno e la preoccupazione. Quindi un ricovero all’ospedale Hadassah di Gerusalemme, 24 ore sotto ossigeno, e finalmente, la dimissione, il trasferimento al Dan Hotel, alle pendici del Monte Scopus, per la quarantena. In Israele sono una decina i cosiddetti Corona hotel: alberghi – controllati dall’esercito – che ospitano pazienti affetti da Covid-19 con sintomi lievi, cui è consentito socializzare, o cittadini che rientrano dall’estero per due settimane di isolamento.
Una convivenza insolita
«Appena arrivata all’hotel, mi è stato detto che nella lobby c’era una lezione di Zumba. In quel momento ho capito di trovarmi in un posto veramente bizzarro e speciale», racconta Noam. E speciale lo era davvero. Ebrei e palestinesi, ortodossi e laici, persone con alle spalle storie disparate, appartenenti a ceti e frammenti diversi di popolazione: tutti insieme, dal mattino alla sera, alle prese con la guarigione dallo stesso male. Assenti i conflitti – palesi o latenti – e le dinamiche di potere che di solito contraddistinguono la vita sociale in Israele.
Un pianoforte nella lobby suonato sempre da qualcuno, a tutte le ore, per il piacere di piccoli o grandi gruppi di ascoltatori. Volontari che gratuitamente mettevano a disposizione le proprie competenze: dall’insegnante di yoga alla parrucchiera. Ma soprattutto tanti, piccoli gesti spontanei di solidarietà e reciproca cura.
«Era una situazione estrema», continua Noam. «Non c’erano il razzismo, gli atteggiamenti intolleranti e l’odio che, purtroppo, si respirano di solito qui. Gli ospiti dell’hotel erano tutti concentrati sulla malattia, e penso che quest’ultima abbia tirato fuori dalle persone – in modo per me totalmente inaspettato – il sentimento della compassione. Questo perché tutti avevamo un solo nemico comune: il virus».
Ridere per guarire
Chiediamo a Noam di citare un episodio per lei particolarmente piacevole. Ci racconta ridendo di un giorno in cui lei e un’amica hanno avuto una sorta di choc nel realizzare che tutto stava andando bene: «Non c’erano tensioni, non avevamo problemi. Allora con questa amica abbiamo inscenato una vera e propria lite furibonda nella hall, ed è stato molto divertente».
In due settimane, Noam si è esibita due volte – pur con un po’ di fatica nella voce – di fronte al composito pubblico del Dan Hotel. Far ridere gli altri, conclude, è stata senza dubbio la sua miglior medicina.
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Noam ha raccontato la sua insolita esperienza di quarantena comunitaria alla Cnn. Clicca qui per guardare il servizio in inglese.