(g.s.) – Dal 17 maggio Israele ha un nuovo governo, frutto di un accordo per un esecutivo d’emergenza firmato il 20 aprile scorso a Gerusalemme sottoscritto dal leader del Likud Benjamin Netanyahu e dal suo principale avversario Benny Gantz, alla testa del partito Kahol Lavan (Blu e Bianco). Il patto, molto articolato, ha posto fine a uno stallo istituzionale che durava da oltre un anno e che due precedenti consultazioni elettorali non erano riuscite a sbloccare.
Anche dalle legislative del 2 marzo i due principali contendenti erano usciti con l’impossibilità di formare il governo appoggiandosi ai loro “naturali” schieramenti. Gantz, che il 16 marzo aveva ricevuto dal presidente Reuven Rivlin l’incarico di provarci, avrebbe potuto reggersi sui voti favorevoli, o almeno sull’appoggio esterno, del partito Israel Beitenu di Avigdor Lieberman, e dei determinanti 15 deputati dei partiti arabi. Anche stavolta, però, la politica israeliana ha preferito tenere i rappresentanti della consistente minoranza araba (un quinto della popolazione) fuori dalla stanza dei bottoni. Benny Gantz, che aveva impostato tutta la campagna elettorale all’insegna dell’alternativa a Netanyahu, ha compiuto una brusca sterzata, andando ad abbracciare politicamente il più longevo dei primi ministri israeliani e gettando nello sconforto molti suoi elettori.
Il leader del Likud ha saputo giocare bene le proprie carte durante la pandemia da Covid-19, guidando con polso fermo l’emergenza, che ha anche determinato il rinvio del processo penale (per corruzione, frode e abuso d’ufficio) a suo carico dal 17 marzo al 24 maggio.
La fisionomia del nuovo governo
L’accordo del 20 aprile prevede che il governo resti in carica 36 mesi e sia presieduto per i primi 18 da Netanyahu, poi da Gantz, che nella prima fase sarà vicepremier e ministro della Difesa. Alla sua parte politica vanno anche i ministeri degli Esteri e della Giustizia (ma sulle nomine ai livelli più alti della magistratura Netanyahu avrò diritto di veto). I contenuti salienti del patto sono stati recepiti dalla Knesset che ha dato loro valore di legge il 7 maggio. La sera prima l’Alta corte di Giustizia israeliana aveva rigettato una serie di petizioni che contestavano la possibilità per un imputato in un processo penale (Netanyahu) di rivestire la carica di primo ministro.
Il governo Netanyahu/Gantz – il trentacinquesimo dal 1948 ad oggi – è composto da 36 ministri e una quindicina di viceministri, un record nella storia dell’Israele contemporaneo. Ne fanno parte anche i laburisti (elettoralmente parlando in via di estinzione) che ottengono due ministeri. Per la prima volta c’è una ministra di origini etiopi: Pnina Tamano-Shata, al ministero per l’Immigrazione (ebraica). Tagliati fuori vari personaggi di primo piano del Likud, il partito di Netanyahu. La presidenza della Knesset, tenuta per poche settimane da Gantz, torna a un membro del Likud: Yariv Levin.
Annessioni in vista, c’è allarme
Tra gli impegni messi nero su bianco del nuovo governo – in cui entrano anche i laburisti, in via d’estinzione – c’è la possibilità di avviare in luglio l’annessione della valle del Giordano (ora nei Territori palestinesi di Cisgiordania) se da Washington arriverà il via libera dell’amministrazione Trump. La misura, va ricordato, è già inclusa nella sua visione per la fine del conflitto in Terra Santa Peace to Prosperity, resa pubblica il 28 gennaio scorso dal presidente Donald Trump.
Contrarie a una simile eventualità si sono già dette, il 23 aprile, l’Unione Europea e le Nazioni Unite. Le loro prese di posizione resteranno a verbale, prive, probabilmente, di qualsiasi conseguenza pratica.
Anche i capi delle Chiese di Terra Santa, in un comunicato diffuso il 7 maggio, scrivono di considerare «i piani unilaterali di annessione con la massima preoccupazione». Allo Stato di Israele chiedono di rinunciare a un simile passo unilaterale, che farebbe naufragare «ogni residua speranza di successo del processo di pace». A Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Onu (il Quartetto) chiedono di dar nuovamente vita a un’iniziativa internazionale per una pace giusta e duratura. All’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), unico interlocutore riconosciuto a livello internazionale, domandano di por fine alle divisioni interne della politica palestinese e poter lavorare al raggiungimento della pace e alla creazione di uno Stato pluralistico e democratico.