Tra le molte cose che ignoriamo dell'Iran c'è anche l'esistenza di una sorta di movimento "hippy" che ha i suoi santuari in un arcipelago nel sud del Paese. Le rocciose isole di Hormuz, Hengam e Larak sono le mete ambite di molti giovani.
Come la California degli anni Sessanta del Novecento per la Beat generation, le isole del Golfo Persico si sono trasformate in sinonimo di libertà e avventura per i giovani iraniani. «Sono un must per chi vuole uscire dai sentieri battuti ed è in cerca di nuove esperienze», conferma Parisa Bakthiari, responsabile del sito Surfiniran. Nel piccolo arcipelago a largo di Bandar Abbas, all’estremo sud del Paese, si respira un’aria diversa e si assapora la sensazione di trovarsi in una sorta di zona franca, lontana dai pervasivi controlli della Repubblica islamica e, in questi tempi, anche dal contagio del Covid-19. In pochi anni le isole rocciose, impervie e solitarie di Hormuz, Hengam e Larak, dimenticate per decenni dal turismo nazionale e tuttora ignote a quello internazionale, sono diventate una meta cult per gli artisti e gli spiriti indipendenti delle nuove generazioni. Il viaggio è un rito di iniziazione. C’è chi arriva in aereo fino a Bandar Abbas, chi in treno, chi in autobus, chi addirittura in autostop, come ha fatto, viaggiando da sola, Mahsa di Teheran, attraverso un Paese grande sette volte l’Italia, per raggiungere un gruppo di meditazione sull’isola di Hengam. I “nipoti” persiani di Jack Kerouac e Lawrence Ferlinghetti cercano infatti – a leggere le loro testimonianze sui social – un senso più profondo della loro vita, nuove esperienze artistiche e umane, la possibilità di incontrare persone sulla stessa lunghezza d’onda con cui stringere contatti e amicizie, o immergersi in una natura straordinaria, magica e allucinata.
È un fenomeno crescente, un passaparola ininterrotto, una marea di persone in arrivo, che portano risorse e benessere nell’economia locale. Ovvio che ne siano a conoscenza anche i Guardiani della Rivoluzione che, come succede spesso in Iran, per lo più fanno finta di nulla per non comprimere gli interessi e gli affari della popolazione isolana, salvo intervenire quando le notti in spiaggia diventano troppo calde o quando serve lanciare un segnale politico. Ne sa qualcosa Chips che vive con la madre single a Bandar Abbas, ma trascorre lunghi mesi in tenda nelle isole ed ha avuti diversi “scontri” – come racconta su Facebook – con i tutori della morale islamica che avrebbero voluto cacciarlo via. Chips è sempre riuscito a rimanere. L’arcipelago si presta ad essere il luogo simbolo di un altro Iran. «Dio deve aver prima dipinto il mondo e poi lasciato il suo pennello a Hormuz», osserva in un’intervista al quotidiano Shargh Jamshid Bayrami, un fotografo molto noto in Iran. Il suolo rosso ferroso, le montagne colorate con strati bianchi, ocra, vermigli, marroni, il mare cristallino, una scogliera che sembra un susseguirsi di sculture della mitologia persiana, e la bouganville che inonda le case e le stradine fanno di Hormuz l’isola “arcobaleno”, dove molti, compreso Bayrami, hanno deciso di trasferirsi. Gli abitanti locali condiscono il pane con la terra rossastra. Sono convinti che la polvere ferrosa del suolo dia loro forza e salute. Sicuramente li ha resi particolarmente ospitali e con un dono particolare per l’arte. Tra i seimila abitanti, fanno scuola e proseliti zia Kaniz, un’anziana signora i cui quadri sono stati esposti a Teheran e New York, e “papà Mohsen”, ribattezzato “papà Picasso”, un vecchio pescatore che ha dipinto – racconta ancora il fotografo Bayrami – «i problemi della sua vita» sulle pareti bianche della sua casa. Tutti gli abitanti di Hormuz non si sono comunque lasciati sfuggire le occasioni offerte dall’improvvisa popolarità della loro terra. Non vi è famiglia che non offra letti ai visitatori o pasti e docce a chi campeggia in spiaggia o nelle grotte dell’isola. Di giorno, per spostarsi, si affittano risciò e biciclette. La sera si canta e si suona per strada o in qualche caletta.
Da sempre al centro delle rotte internazionali, il piccolo arcipelago – che comprende anche Qeshm, destinazione di lusso dei ricchi commercianti di Teheran – nel XVI e XVII secolo era stato occupato dai portoghesi che vi avevano costruito fortezze e avamposti ancora oggi in piedi. Poi, in tempi più recenti, la guerra tra Iran e Iraq degli anni Ottanta ha trasformato le isole in una postazione di strategica importanza per il controllo del Golfo Persico, spopolandole dei civili che fuggirono sulla terraferma iraniana, o in Oman o negli Emirati Arabi Uniti. Solo in 500 dei vecchi abitanti sono tornati a Hengam, e solo in 200 a Larak, dove molte case e giardini sono ancora abbondonati. Infine, siamo ai giorni attuali, è arrivata la stagione dei giovani alternativi, del clima rilassato, dei concerti, delle mostre d’arte, delle bancarelle che vendono oggetti di artigianato. I bunker militari sono stati trasformati in caffè-librerie frequentati da neolaureati e non è raro incontrare ai tavolini all’aperto – racconta ancora Bayrami – ragazze iraniane con i capelli tinti di rosso o di blu, jeans sdruciti all’occidentale e piercing al naso.
Perché Persepolis?
La città di Persepolis era il centro del mondo prima di Alessandro Magno e di Roma. Era simbolo di una stagione di convivenza e integrazione culturale per quell’immensa regione che chiamiamo Medio Oriente. Oggi le rovine della capitale politica dell’antico Impero Persiano si trovano nel cuore geografico di un’area che in pochi decenni ha visto e vede guerre disastrose, invasioni di superpotenze esterne, terrorismo, conflitti latenti e lacerazioni interne all’islam: eventi che sfuggono alle semplificazioni con cui spesso in Occidente si leggono le vicende di quel quadrante geografico e che richiedono pazienza nel ricercare i fatti e apertura nel valutarne le interpretazioni. È ciò che si sforzerà di fare questo blog, proponendo uno sguardo ravvicinato sulla cultura, la società, l’economia, la religione, le radici identitarie dell’Iran e dei territori a forte componente sciita, compresi tra il Mediterraneo e Hormuz, tra lo Yemen e l’Asia Centrale.
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Elisa Pinna, giornalista e scrittrice, è stata vaticanista, inviata per il Medio Oriente e corrispondente da Teheran per l’agenzia Ansa, oltre che collaboratrice di diverse testate italiane. Ha scritto libri sul pontificato di papa Benedetto XVI, sulle minoranze cristiane in Medio Oriente, sull’eredità dell’apostolo san Paolo. Con le Edizioni Terra Santa ha pubblicato Latte, miele e falafel: un viaggio tra le tribù di Israele e contribuito a Iran, guida storica–archeologica.