Il nome di Bnei Brak, per chi non vive in Israele, non dice nulla. Per chi abita tra Gerusalemme e Tel Aviv, questa città di circa 200 mila abitanti è nota per essere uno dei centri dove è maggiore la presenza degli haredim, gli ebrei ultraortodossi, gli stessi che popolano il quartiere di Mea Shearim nella Città Santa. Qualche giorno fa, in piena emergenza coronavirus, la città è stata decretata «zona rossa». E le autorità hanno inviato in loco oltre un migliaio di agenti per sorvegliare la zona e pattugliare le strade, onde garantire il rispetto delle misure sanitarie adottate. Decine di check-point sono stati allestiti agli ingressi e alle uscite della città: ai cittadini non è permesso lasciare Bnei Brak se non per motivi ben documentati. Oltre alle limitazioni degli spostamenti, per gli abitanti è fatto obbligo di restare a casa e di uscire solo per fare la spesa o recarsi in farmacia. Secondo stime, il 40 per cento degli abitanti di Bnei Brak sarebbe positiva al coronavirus.
La situazione in città desta gravi preoccupazioni, tanto che le autorità sanitarie hanno disposto di trasferire altrove, in centri attrezzati, sia gli ammalati sia i positivi al Covid-19. Si parla di almeno 4.500 persone. Sarà inoltre impiegata la 98ma divisione di Tsahal, le forze armate, per fornire cibo, medicine e altri servizi alla popolazione costretta in quarantena. In caso di resistenza alle forze dell’ordine, queste ultime sono autorizzate a un uso «proporzionato della forza».
Cosa è successo a Bnei Brak?
Quale evento ha scatenato il virus? Gli ebrei ultraortodossi hanno accolto con grande riluttanza le restrizioni previste dal governo israeliano per contenere la diffusione del coronavirus e non hanno osservato quasi per nulla le norme sul distanziamento sociale. In occasione delle feste di Purim del 10 marzo scorso («Le sorti» e la più giocosa delle celebrazioni del calendario ebraico, paragonabile a una sorta di Carnevale), in gran parte d’Israele si sono limitati gli assembramenti e le manifestazioni pubbliche, ma non nei quartieri degli ultraortodossi. Questo ha trasformato le comunità haredim in un vero e proprio focolaio della pandemia.
La trasformazione di Bnei Bak in «zona rossa» e l’aumento vertiginoso dei contagi, ha gettato nel panico i centri abitati vicini. Il confinante comune di Ramat Gan, oltre ai posti di blocco previsti della polizia, ha innalzato barricate e reti metalliche per impedire ai residenti di Bnei Brak di lasciare la città. Le barriere sono state poi rimosse per ordine delle autorità, ma l’iniziativa ha seminato ben più di un malumore tra la comunità haredim e i cittadini della vicina Ramat Gan.
Il caso Litzman
Sulla vicenda era intervenuto anche il ministro della Salute, l’ultraconservatore Yaakov Litzman, che aveva definito le misure messe in campo dal sindaco di Ramat Gan «gravemente discriminatorie». Litzman si è «distinto» nelle scorse settimane anche per aver definito il coronavirus un «castigo divino contro l’omosessualità».
Ironia della sorte, il 1° aprile scorso Litzman è risultato positivo al Covid-19. Per sua stessa ammissione, ha più volte violato le misure sul distanziamento sociale partecipando a diverse riunioni pubbliche, consigli dei ministri e celebrazioni in sinagoga (è anche rabbino) ed esponendo a contagi numerose autorità del Paese.