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Talebani-Usa, gli scricchiolii di un accordo

Elisa Pinna
2 aprile 2020
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Non tutto fila liscio nell'attuazione dell'accordo tra i talebani e il governo degli Stati Uniti firmato alla fine del febbraio scorso. Il governo di Kabul, non coinvolto nei negoziati, recalcitra e temporeggia.


Ad un mese dalla firma, avvenuta il 29 febbraio scorso, l’accordo tra i diplomatici statunitensi e i talebani si è già inceppato. I fondamentalisti islamici si stanno rafforzando in tutto l’Afghanistan e solo la scorsa settimana hanno compiuto 300 attacchi contro le forze armate regolari, mentre il cosiddetto negoziato di pacificazione intra-afghano, il cui avvio doveva avvenire il 10 marzo con un massiccio scambio di prigionieri tra governo e ribelli, è ancora lontano dal decollare.

Solo un punto tiene ed è quello che interessa al presidente Donald Trump: i talebani, rispettando per ora la parola data, non hanno colpito le truppe americane, che possono quindi cominciare una ritirata (protetta proprio dai loro ex nemici) dopo la guerra più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti. Con gli occhi puntati sulle prossime elezioni, il presidente statunitense riporterà a casa, entro 135 giorni, 3.400 «ragazzi», lasciandone sul campo altri 8.600, un numero ritenuto dagli esperti il «minimo indispensabile» per proteggere la presenza diplomatica e gli interessi americani. Tuttavia, la Casa Bianca non si vuole fermare e prevede un ulteriore «ridimensionamento» di soldati nel 2021, che riguarderà a cascata anche le forze della Nato, tra cui i quasi mille militari italiani di stanza a Herat.

Per Trump, come in passato avvenne per i britannici e per i sovietici, l’importante è togliersi dalla trappola afghana, anche se l’obiettivo di esportarvi una democrazia compiuta non è stato centrato, a dispetto di quanti, nella stessa popolazione afghana, vi avevano creduto. Gli Stati Uniti invasero l’Afghanistan a fine del 2001 per rovesciare il regime integralista islamico dei talebani accusato di proteggere e nascondere il miliardario saudita Osama Bin Laden (ucciso poi nel 2011 in Pakistan) e i suoi militanti di al Qaida, ideatori e organizzatori conclamati degli attentati dell’11 settembre in America. All’epoca, il governo dei talebani (termine che indica genericamente gli studenti coranici) era riconosciuto solo da Arabia Saudita, Pakistan ed Emirati Arabi Uniti. Dopo un ventennio di combattimenti, miliardi di dollari investiti, 2.400 militari statunitensi caduti in battaglia e centinaia di migliaia di afghani uccisi, i talebani sono ancora nel pieno delle loro forze, pronti a riprendersi il potere, mentre gli alleati locali degli Stati Uniti, il governo di Kabul e l’esercito regolare appaiono troppo deboli e divisi per riuscire a contenere la nuova offensiva degli «studenti coranici».

Del resto, nel negoziato tra Stati Uniti e talebani durato 18 mesi e svoltosi a Doha in Qatar, né il presidente afghano Ashraf Ghani, in carica dal 2014 (e rieletto lo scorso settembre in un voto contestato dal suo storico rivale Abdullah Abdullah) né rappresentanti delle forze armate afghane sono stati coinvolti o interpellati. Ghani ha ricevuto dal segretario di Stato americano Mike Pompeo la lista dei desiderata dei talebani, da accettare senza fare troppe storie, per avviare le trattative di pace. Liberare 5 mila prigionieri talebani in cambio di un migliaio di militari afghani e formare una delegazione unitaria afghana per avviare la «pacificazione» con i talebani. Qui sono cominciati i primi problemi. Ghani ha puntato i piedi sulla liberazione in blocco di cinquemila combattenti islamisti prevista per il 10 marzo scorso e non ancora avvenuta, nonostante le forti pressioni dei talebani e degli Stati Uniti.

Il 23 marzo, Pompeo, in piena emergenza da coronavirus sia in America che in Afghanistan, è tornato addirittura a Kabul per annunciare a Ghani il taglio di un miliardo di dollari di aiuti all’Afghanistan e minacciarlo di ulteriori sforbiciate ai fondi per il 2021 se avesse continuato a tergiversare sullo scambio di prigionieri e sulla formazione di una delegazione unitaria con il rivale Abdullah per aprire il negoziato coi talebani. Dopo la sfuriata e i ricatti del segretario di Stato americano, qualche contatto tra Ghani e i talebani sembra esserci stato ma alla fine del primo mese di «accordo» la situazione è ancora di stallo. Nel frattempo, l’ala afghana dell’Isis, in aperto contrasto coi talebani, ha compiuto due attentati feroci a Kabul, contro gli sciiti e contro i sikh. Se i sikh sono ormai una esigua minoranza, gli sciiti rappresentano il 25 per cento della popolazione afghana, una componente non trascurabile e protetta dall’Iran, uno dei giocatori in campo, anche se escluso dal negoziato statunitense.

In più a fine marzo, nonostante i talebani si fossero impegnati a tagliare tutti i contatti con al Qaida, l’attuale leader dell’organizzazione terroristica, l’egiziano Ayman al-Zawahiri, si è fatto sentire. In un messaggio alla popolazione afghana, ha giurato – secondo quanto riferiscono diversi siti – obbedienza e fedeltà ai comandi talebani e al nuovo Emirato islamico dell’Afghanistan, dando già per scontato che il governo di Kabul crolli a breve. Del resto, si chiede in un commento sul New York Times Douglas London, l’ex capo della Cia nell’Asia sud-occidentale, perché i talebani si dovrebbero fermare o accettare compromessi, ora che stanno vincendo ed hanno avuto anche una legittimazione senza riserve da Trump?

Un’impresa militare costosa, sanguinosa e fallita, un alleato abbandonato al suo destino, un accordo che dà carta bianca a un nemico potente. In Afghanistan sembra ripetersi il copione dell’ingloriosa guerra del Vietnam. L’accordo di pace nel 1973 a Parigi tra l’allora presidente Richard Nixon e i nord-vietnamiti fu il preludio della precipitosa fuga in elicottero dei diplomatici statunitensi dai tetti di Saigon nel 1975. È un’ombra che molti vedono allungarsi anche sull’Afghanistan di oggi.


 

Perché Persepolis?

La città di Persepolis era il centro del mondo prima di Alessandro Magno e di Roma. Era simbolo di una stagione di convivenza e integrazione culturale per quell’immensa regione che chiamiamo Medio Oriente. Oggi le rovine della capitale politica dell’antico Impero Persiano si trovano nel cuore geografico di un’area che in pochi decenni ha visto e vede guerre disastrose, invasioni di superpotenze esterne, terrorismo, conflitti latenti e lacerazioni interne all’islam: eventi che sfuggono alle semplificazioni con cui spesso in Occidente si leggono le vicende di quel quadrante geografico e che richiedono pazienza nel ricercare i fatti e apertura nel valutarne le interpretazioni. È ciò che si sforzerà di fare questo blog, proponendo uno sguardo ravvicinato sulla cultura, la società, l’economia, la religione, le radici identitarie dell’Iran e dei territori a forte componente sciita, compresi tra il Mediterraneo e Hormuz, tra lo Yemen e l’Asia Centrale.

Elisa Pinna, giornalista e scrittrice, è stata vaticanista, inviata per il Medio Oriente e corrispondente da Teheran per l’agenzia Ansa, oltre che collaboratrice di diverse testate italiane. Ha scritto libri sul pontificato di papa Benedetto XVI, sulle minoranze cristiane in Medio Oriente, sull’eredità dell’apostolo san Paolo. Con le Edizioni Terra Santa ha pubblicato Latte, miele e falafel: un viaggio tra le tribù di Israele e contribuito a Iran, guida storica–archeologica.

 

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