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Siria, le incognite del coronavirus

Giuseppe Caffulli
20 aprile 2020
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Siria, le incognite del coronavirus
Operazioni di sanificazione in un campo profughi nella provincia siriana di Idlib, il 29 marzo 2020. (foto Ali Syria/Flash90)

In Siria i casi di contagio da Covid-19 ufficialmente censiti sono relativamente contenuti. C'è il dubbio che i dati reali siano ben altri in un Paese già stremato da nove anni di guerra. I timori per la provincia di Idlib.


All’inizio di aprile l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha inviato nel nord-ovest della Siria 5 mila tamponi per identificare i pazienti affetti da Covid-19. In collaborazione con alcune organizzazioni mediche siriane dei distretti nord-occidentali di Idlib e Aleppo, l’Oms ha allestito per l’emergenza coronavirus tre ospedali a Idlib, Salqin e Daret Izza, per un totale di 210 posti letto.

In un Paese entrato nel decimo anno di guerra, dove i combattimenti dal marzo 2011 ad oggi si stima abbiano provocato almeno 380 mila morti e oltre 6 milioni di sfollati interni, il coronavirus, con una trentina di casi confermati e due decessi (al 15 aprile), rischia d’innescare l’ennesima emergenza. In Siria sono in funzione a malapena il 50 per cento degli ospedali pubblici, dove spesso però medicine e apparecchiature scarseggiano. Per non parlare delle condizioni igieniche, spesso al limite.

Per cercare di contenere la pandemia, il governo di Damasco ha chiuso i confini, imposto il distanziamento sociale chiudendo scuole e ristoranti, impedito lo spostamento al di fuori della propria provincia. Attorno a Damasco, le autorità hanno imposto un coprifuoco parziale, dichiarando «zona rossa» anche la moschea sciita Sayyida Zaynab, alla periferia sud della capitale.

I dubbi sui numeri

A fronte delle misure previste, la dichiarata quasi irrilevante incidenza di contagiati e morti in Siria per Covid-19 presenta però più di qualche punto oscuro. Secondo gli esperti, Damasco starebbe minimizzando il bilancio delle vittime per motivi politici. «Il personale medico ritiene che ci siano molte persone che muoiono in Siria a causa del virus», spiega Zaki Mehchy, analista presso il prestigioso centro studi londinese Chatham House. Ci sarebbe però un «ordine da parte della sicurezza nazionale» di tacere sull’accaduto.

Il timore, da parte degli attivisti per i diritti umani e le agenzie umanitarie, è che si possa consumare l’ennesimo disastro nel silenzio generale, anche perché il sistema sanitario siriano non appare in grado di curare i pazienti affetti dal virus. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, almeno il 70 per cento di medici e infermieri sarebbe fuggito dall’inizio della guerra.

La fragilità di Idlib

Le aree maggiormente a rischio nel Paese sono quelle comprese nel governatorato di Idlib, dove dal 5 marzo è in vigore una tregua, ma dove sacche di territorio sono controllate dalle forze ribelli alleate della Turchia e ostili a Damasco. Il distanziamento sociale e l’assistenza medica, specialmente nei campi profughi che ospitano quasi un milione di persone, è a dir poco impensabile.

«La mancanza di cibo, acqua pulita e l’esposizione al freddo hanno già colpito centinaia di migliaia di persone, rendendole ancora più vulnerabili», afferma Misty Buswell dell’ong International Rescue Committee (Irc). Secondo i dati in possesso dell’ong (che mette in guardia anche rispetto al taglio degli aiuti umanitari al Paese), quasi tutti i 105 letti di terapia intensiva e i 30 ventilatori polmonari presenti negli ospedali di Idlib sono già in uso per altre patologie.

Il virus e la propaganda

Insomma, i timori che si possa addensare sulla Siria una nuova nube sono reali, anche alla luce della strumentalizzazione politica che le parti in gioco stanno facendo della pandemia. Da una parte l’Isis presenta il virus come una punizione divina e incita gli adepti ad aderire alla lotta jihadista (ne abbiamo scritto anche a proposito dell’Egitto). Dall’altra il governo di Damasco, che intravvede nella gestione (manipolata?) dell’epidemia la possibilità di riaffermare la propria efficienza e la propria immagine a livello internazionale.

In entrambi i casi, purtroppo, usare la pandemia per i propri guadagni politici giocando d’azzardo con la pelle di milioni di persone potrebbe avere effetti catastrofici.

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