L'avevamo dimenticato, ma pestilenze ed epidemie accompagnano da sempre l'avventura umana sul nostro pianeta. Ne hanno scritto lungo i secoli anche autori del mondo arabo. Breve antologia.
Per superare questa quarantena in molti si sono buttati sulla letteratura. E così, La peste, una delle opere più famose dello scrittore franco-algerino Albert Camus, è diventata in un mese il libro più letto in Italia e in Europa, dopo anni di oblio. Certo, si tratta di un romanzo ambientato nella città algerina di Orano e basato sull’epidemia di colera che travolse la zona nel 1849, anche se Camus scelse di ambientare il suo romanzo in età moderna, dando il destro a molti interpreti per immaginare che alludesse, metaforicamente, alla storia della resistenza all’occupazione nazista durante la Seconda guerra mondiale.
Altri lettori in questi giorni hanno optato per José Saramago, mentre i più classicisti hanno ripreso in mano il Decameron di Boccaccio. Non tutti sanno che anche nella letteratura in lingua araba si possono trovare degli equivalenti, e non sono equivalenti da poco.
Nello stesso anno in cui Camus pubblicava La peste, il 1947, Nazik al-Malaika pubblicò il suo resoconto del colera al Cairo in versi, rompendo tutte le convenzioni poetiche. Mille anni prima, Ibn al-Wardi si scagliava contro la peste componendo un’ode, per poi soccombere alla malattia di lì a poco.
Non c’è solo letteratura, comunque, da queste parti. La riflessione sulle piaghe dell’umanità non è solo letteraria. In arabo, sul tema è possibile leggere di tutto: guide all’igiene, libri di viaggio e hadith (cioè i detti attribuiti al profeta Mohammad e usati come guida per la vita quotidiana). In particolare, le opere dello scrittore del Nono secolo Ibn Abi al-Dunya, così come quelle successive di Ibn Hajar al-Asqalani, hanno fornito indicazioni molto precise su come combattere le malattie contagiose e sono state considerate testi di riferimento e orientamento medico-scientifico, proprio come oggi noi guardiamo all’Organizzazione mondiale della sanità.
Per questo viaggio, appuntatevi allora i seguenti titoli.
Il colera, del poeta iracheno Nazik al-Malaika (1923-2007), raffigura la morte, il dolore e l’agonia che hanno distrutto l’Egitto durante gli ultimi mesi del 1947. L’epidemia che colpì duramente il Paese è considerata uno dei peggiori casi di contagio in Egitto durante il Ventesimo secolo. Uccise circa 10.276 persone su 20.805 casi registrati. Durante quel periodo l’Egitto fu tagliato fuori dal resto del mondo, vennero vietati i viaggi da e verso di esso e i pazienti e le comunità infette furono isolati severamente.
Sebbene l’origine dell’infezione non sia mai stata provata, molti egiziani credevano che il colera fosse stato contratto da soldati inglesi di ritorno dall’India (l’Egitto, che era una colonia del Regno Unito all’inizio del secolo, fu presidiato dalle truppe britanniche fino alla fine degli anni Quaranta). Così il poeta al-Malaika evoca immagini di carrozze che trasportano cadaveri e riproduce il peso del silenzio che dominava sulle strade egiziane. Il suo stile venne salutato dalla critica all’epoca come innovativo, sia nell’uso di espressioni colloquiali, che nell’uso del verso libero piuttosto che nella forma chiusa tradizionale dell’ode araba. Come tale, Il colera ha inaugurato un nuovo capitolo della poesia araba ed ispirato una nuova ondata di poeti fortemente sperimentale, chiamata “la generazione dei pionieri”. Durante gli anni Novanta, al-Malaika si trasferì al Cairo, dove trascorse l’ultimo periodo della sua vita.
Andando indietro nel tempo, prima dell’epidemia di influenza del 1917-1920 chiamata erroneamente “spagnola”, la cosiddetta “morte nera” cioè la peste classica, ha ispirato i volumi Dieci anni alla corte di Tripoli, scritti da Miss Tully, cognata di Richard Tully, console britannico a Tripoli dal 1784 in poi. La Tully racconta come durante questa epidemia la paglia venisse fatta bruciare nelle case come strumento di fumigazione e come la distanza sociale fosse un regola, con visitatori che potevano entrare uno alla volta nelle case, mantenendo estrema distanza. Non molto diverso da quanto accadeva a Tunisi nel 1785, dove la Tully documenta come la peste si fosse diffusa a causa dei corrieri provocando ben 15mila morti a Sfax.
Anche Ibn al-Wardi (1292-1349), storico siriano, scrisse di morte nera. Al-Wardi viveva ad Aleppo quando la peste arrivò nel 1349, devastando la città per 15 anni e causando circa mille morti al giorno. Il suo Saggio sulla pestilenza è un resoconto storico sull’impatto della morte nera nel Levante ed è abbastanza impressionante la similitudine con i nostri giorni. Ibn al-Wardi ne segue tutto il percorso: dalla causa primaria oscura, al primo focolaio in Cina. Per poi allargarsi alla Persia, all’India, all’Egitto, Gaza, Beirut, Damasco, Aleppo.
Ahmed bin al-Hussein al-Kindi (915-965), grande poeta siro-iracheno, soprannominato al-Mutannabi (cioè “Colui che è profeta”) e a cui oggi è intitolato tutto il quartiere della città vecchia di Baghdad, dedicò alla morte nera versi di grande suggestione metaforica. Descrive la febbre dilagante come una visitatrice notturna, un’amante timida, che s’intrufola nel letto di Mutannabi dopo il tramonto. Il lettore può sentire visceralmente l’ospite sgradita, perché il ritmo del verso del poeta simula il delirio, il sudore, l’affaticamento della febbre virale. Lirica famosissima all’epoca, con un gioco di metafore che hanno fatto scuola, venne scritta dal poeta in Egitto, in una situazione di estremo stress. Mutannabi era reduce da uno scontro intellettuale alla corte reale. Fu ucciso di lì a poco da briganti armati, nella strada che lo portava ad Ahvaz, in Iran.
Questi sono i versi:
«Perché non fa le sue visite se non sotto la copertura dell’oscurità,
le ho offerto liberamente la mia biancheria e i miei cuscini,
ma lei li ha rifiutati e ha passato la notte tra le mie ossa.
La mia pelle è troppo contratta per contenere sia il respiro che lei,
quindi lo indebolisce con ogni sorta di maleficio.
Quando mi lascia, mi lava
come se ci fossimo ritirati in disparte per qualche azione proibita.
È come se la mattina la allontanasse,
e i suoi dotti lacrimali si allagassero nei loro quattro canali.
Guardo il suo tempo senza desiderio,
ma con la vigilanza dell’amante appassionato».
Uno dei primi studiosi a scrivere un libro sulla morte nera fu l’iracheno Irn Abi al-Dunya (823-894). Venerato come insegnante, ebbe come studenti i califfi abbasidi, che governavano territori che si estendevano in tutto il Nord Africa, la penisola arabica, il Levante e l’odierno Iran e Afghanistan. Durante i primi secoli dell’Islam, poco era stato scritto sulla pestilenza: fino al Nono secolo, nessuno studioso serio aveva dedicato un libro all’argomento o suggerito misure da adottare per evitare il contagio. Ibn Abi al-Dunya fu il primo a farlo: avere accesso ai più potenti sovrani dell’epoca significava che la sua parola avrebbe avuto (come del resto fu) un peso consistente.
Last but not least, la tradizione religiosa islamica non lascia dubbi sui comportamenti da tenere durante le epidemie. Il Libro delle pestilenze ha incluso un detto del profeta Mohammad (hadith) sulla febbre, che recita:
«Il Messaggero di Allah, pace e benedizioni su di lui, entrò nella casa di Umm Sa’ib e disse: “Cosa ti affligge, o Umm Sa’ib? Stai tremando.” Rispose: “È la febbre. Allah non l’ha benedetto”. Il profeta disse: “Non maledire la febbre. In verità, rimuove i peccati dei figli di Adamo, proprio come una fornace rimuove lo sporco dal ferro”».
Il Libro della malattia e delle espiazioni fornisce altri racconti pratici di come molti pazienti si siano ripresi dai contagi, incluso il profeta Mohammad che ne fu colpito. Uno degli hadith ampiamente citati da questo libro, recita: «Se senti parlare di un focolaio di peste in una terra, non entrarci; ma se la peste scoppia in un posto mentre ci sei dentro, non lasciare quel posto». E un altro: «Quelli con malattie contagiose dovrebbero essere tenuti lontano da quelli che sono sani».
Isolamento e permanenza a casa, dunque, sono sempre state le soluzioni migliori e più sagge: oggi con il Covid-19, allora con la morte nera. In 1.400 anni non è cambiato quasi nulla di fronte ad accadimenti come questi.
Perché Diwan
La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.
Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.
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Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).
Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).
Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).