Senza stipendio, senza cibo, senza poter ritornare in patria per il blocco dei collegamenti aerei, abbandonati a sé stessi e trattati come gli untori: milioni di migranti, che vivono e lavorano nelle ricche monarchie arabe del Golfo Persico, si sono trasformati nel giro di due mesi nella vittima sacrificale sull’altare dell’epidemia da coronavirus, che, come altrove, ha costretto al rallentamento o al fermo di vasti settori dell’economia. In molti casi i datori di lavoro locali sono scomparsi, in quanto non hanno alcun obbligo legale verso i dipendenti stranieri, sulla base di un sistema che discrimina tra chi ha la cittadinanza e chi non la possiede. «I migranti temono di morire di fame, non hanno più scorte e soldi, sono chiusi in stanze o dormitori superaffollati, non hanno alcuna protezione, nessuno a cui rivolgersi», denuncia l’organizzazione umanitaria Migrant-Rights.org. «Non lavoriamo da più di due mesi e non riceviamo il salario da gennaio. Ci hanno detto di stare a casa e non si sono fatti più sentire», racconta un lavoratore del Camerun, impiegato insieme ad un gruppo di suoi compagni in una agenzia di sicurezza in Bahrein.
Indispensabili ai margini
Dramma nel dramma: contro i migranti, da sempre considerati poco più che schiavi, sottopagati e senza diritti sindacali o civili, si è scatenata ora anche un’ondata xenofoba. «Liberiamoci di loro, mandiamoli nel deserto», è sbottata in televisione Hayat Al Fahad, una delle più note attrici del Kuwait e dell’intero Golfo, appigliandosi al fatto che i focolai di coronavirus si sviluppano spesso tra gli stranieri poveri. Il ministero della Sanità saudita ha reso noto che tra gli oltre 5 mila contagiati nel Regno la metà sono migranti. Non c’è da sorprendersi, replicano le organizzazioni umanitarie, dato che persino nei campi petroliferi, ovvero nel luogo più prezioso di tutta la penisola arabica, gli operai stranieri sono costretti a vivere in capannoni di centinaia di persone, con pochi bagni in comune.
Sebbene mai assimilati nelle comunità nazionali, i migranti sono un elemento indispensabile per le economie del Golfo. Senza di loro i regni del petrolio difficilmente potrebbero reggere. Nei settori alberghiero, dell’edilizia, dei trasporti, delle pulizie, dell’assistenza domiciliare e persino della Sanità, sono milioni i lavoratori filippini, indiani, bangladesi, pakistani, nepalesi, africani e delle nazioni arabe più povere che tengono in piedi il sistema.
Secondo dati del World Facts, un osservatorio curato dalla Cia, i migranti costituiscono oggi un terzo dei 34 milioni di abitanti dell’Arabia Saudita, la metà della popolazione del Bahrein e dell’Oman, i due terzi di quella del Kuwait e sono nove su dieci in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti.
Senza garanzie
Se già in tempi normali le tutele erano minime; in tempi di pandemia i governi locali – accusano gli attivisti per i diritti umani – sembrano disinteressarsi completamente del destino dei migranti. L’Arabia Saudita ha stanziato quasi 2 miliardi e mezzo di dollari per coprire i mancati salari dei lavoratori del settore privato, ma sono esclusivamente destinati ai cittadini sauditi. Negli Emirati Arabi Uniti è stata approvata una legge che consente alle imprese di mettere in mobilità i dipendenti stranieri, con o senza paga, a tempo determinato o indeterminato. Anche in Bahrein si pensa solo a tutelare i propri cittadini. Fa eccezione il Qatar, preoccupato probabilmente dai preparativi per la Coppa del Mondo di calcio del 2022, unico paese del Golfo ad aver annunciato uno schema per proteggere le paghe dei lavoratori migranti nella forma di prestiti bancari. Ad oggi siamo però solo all’annuncio.