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Alla ricerca di un nuovo habitat

Giuseppe Buffon *
14 aprile 2020
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Alla ricerca di un nuovo habitat
Bambini in Amazonia (Foto João Ripper/Unicef)

Come esperto di ecologia integrale, fra Buffon ci invita a riscoprire il valore dello «stare», dell’abitare in un ecosistema locale, in tempi eccezionali come questi. Ma ciò è possibile a condizione di rimettere al centro ogni realtà periferica, abbracciando le comunità più marginali del mondo.


Maledetto corpo! Sfogo quasi lecito in un impeto di stizza, quando soccombiamo al peso di questa separazione, imposta dalla minaccia del contagio, che si accanisce sul corpo. Se non ci fosse il corpo, non ci sarebbe contagio! Con un corpo bionico potremmo sfuggire alla malattia e forse anche alla morte. Sì, maledetto corpo, perché le menti, che prima si potevano confrontare in una reciprocità amica, ora sono costrette a separarsi. Maledetti allora questi nostri corpi che, forzatamente isolati per sfuggire alla minaccia del virus, separano le nostre menti. Maledetti questi corpi che obbligano le persone all’isolamento, nella terapia intensiva. Maledetti questi corpi che obbligano ad affrontare il tunnel della morte in completa solitudine.

Ma da dove viene questa maledizione? Chi l’ha lanciata? Il virus che ci aggredisce proviene dal corpo di animali, in genere selvatici, che sono stati estromessi dal loro habitat, per effetto della crisi ecologica, che ha infranto l’equilibrio dell’ecosistema. Ora, invece, è il virus che entra nei nostri corpi e sconvolge la nostra vita, la obbliga a una revisione profonda, imponendoci prima di tutto un ritorno alla comunità domestica, ai ritmi e alle misure della convivenza famigliare. Qui i corpi sono costretti a stare, prima, nella solitudine di sé stessi e poi in relazione con i più prossimi, persone con le quali abbiamo scelto di condividere la vita.

Un rapporto con noi stessi da ricostruire

Stiamo, così, ricostruendo il nostro habitat primordiale, cominciando proprio dal rapporto con noi stessi, con la nostra carne, con la sua materialità, sensibilità, emotività, con le paure delle nostre solitudini, il disagio che ci provoca lo stare fermi. Il corpo che abbiamo maledetto, è lui ora che ci educa a mutare abitudini, sguardo e linguaggio. Giungiamo addirittura ad accarezzare il telefonino di nostra figlia, che non possiamo più abbracciare. Il nostro dire si nutre, ora, di affetto, di carezze, di parlare corporeo, denso, affettuoso. La stessa tecnologia, da freddo strumento, diventa il prolungamento delle nostre mani, dei nostri abbracci, dei nostri baci.

Intanto anche l’habitat fuori di noi si trasforma gradualmente. La natura riprende vita, favorita anche dalla stagione dell’anno: la primavera. L’aria diventa sempre più pulita. Nel golfo di Cagliari sono ricomparsi i delfini. A Venezia si rivedono i pesci. Gli uccelli hanno ripreso a cantare e anche gli animali selvatici, che ci hanno trasmesso il virus, tornano al loro ambiente originale. Se guarisce l’equilibrio sconvolto dalla crisi ecologica, allora sarà possibile una nuova armonia, il ripristino degli ecosistemi e il ritorno dei virus nei corpi iniziali, cui non possono nuocere, perché loro habitat naturale.

Ma forse tutti speriamo in una nuova vittoria della scienza, che riporti indietro le lancette del tempo, ridandoci la vita di prima. Una vittoria pari a quella ottenuta con l’invenzione degli antibiotici, che hanno permesso un contatto tra i corpi senza conseguenze per le menti. A New York, prima dell’invenzione degli antibiotici, diversi avvocati avevano scoperto che nelle scuole per divenire segretarie, gestite dalle suore, le ragazze imparavano a controllare la loro sfera affettiva mantenendosi a distanza. L’ascesi monastica serviva da antidoto all’attrazione tra i corpi, che poteva dare esito a malattie o a gravidanze indesiderate e, comunque, lesive dell’impegno occupazionale. Con l’invenzione degli antibiotici e poi dei contracettivi, tutto veniva considerato risolto. Le stesse scuole delle suore pian piano si svuotarono.

Pensare locale e agire globale, e non il contrario

Ma possiamo accollare ancora alla scienza il compito di anestetizzare i corpi, di stilizzarli, di rifarli, di trasformarli, di ibernarli, di renderli impermeabili, inossidabili, immortali, in modo che non siano più un ostacolo per la fusione delle menti? Non sarà che dobbiamo riscoprire, ciascuno di noi, ciascuna famiglia, ciascun gruppo, il proprio habitat? Non sarà che per combattere questa aggressione planetaria, globalizzante, occorre riscoprire il valore dello «stare», dell’abitare in un ecosistema locale? Non sarà che il blocco, che ora ci è imposto – e che non potrà essere sciolto totalmente finché un vaccino non ci permetterà di ridiventare globali – ci invita a tornare a valorizzare il significato del territorio, del vivere comunitario, con le sue tradizioni, le sue narrazioni, le sue fiabe, la sua cultura e la sua musica? La globalizzazione, alla quale torneremo, non dovrà dimostrarsi capace di mettere in luce la ricchezza locale, la profondità culturale del suo ambiente umano? Non dovremmo forse tornare a pensare locale e agire globale, e non il contrario?

Insomma, non sarà che questa stasi nel corpo, in famiglia, dentro il nostro contesto abitativo, condominiale e cittadino e poi, man mano che il contagio diminuirà, nel territorio regionale e nazionale, ci può aiutare a ripensare in profondità la tessitura locale delle nostre radici socio-culturali?

Se però non sapremo rimettere al centro ogni realtà marginale, periferica, liminare, sarà difficile valorizzare il nostro contesto locale con la sua bellezza e la sua singolarità. Se non sapremo scoprire, ad esempio, il valore delle comunità indigene dell’Amazzonia o delle popolazioni africane, oggi colpite dal virus senza le nostre strutture sanitarie, sarà difficile fare tesoro della comunità umana a noi prossima, con le sue tradizioni di saperi, di pratiche di spiritualità.

Se non sapremo intercettare ogni altra realtà che ignoriamo, perché lontana geograficamente o anche solo socialmente o culturalmente, sarà difficile tornare a stupirsi del nostro stesso corpo, meraviglioso microcosmo.

Se non sapremo ripartire da noi stessi, dallo stare con il nostro corpo, sarà difficile guarire dalla maledizione che insidia le nostre menti. Forse potremo dire «benedetto corpo» solo alla scuola di quegli indigeni, che hanno fatto del loro ambiente una casa da abitare. Potremo benedire il corpo insieme con loro, che apprezzano la bellezza e il significato di una creazione, che insegna a vivere e a morire.

( * frate minore, Pontificia Università Antonianum – Roma)

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