Anche Giordania e Libano si misurano con l'emergenza coronavirus, adottando misure d'ordine pubblico molto nette. E intanto i libanesi seguono i racconti di un loro connazionale a Wuhan, dove tutto è cominciato.
Rinforzare le misure di polizia utilizzando il regime di eccezionalità imposto dalla pandemia Covid-19 è diventato un gioco da ragazzi per molti governi del Medio Oriente, compresi quelli che vengono ritenuti – più o meno propriamente – moderati.
In Giordania, più di 400 persone sono state arrestate per aver violato il coprifuoco introdotto, a tempo indefinito, sabato 21 marzo e che vietava alle persone di lasciare la propria casa anche solo per acquistare cibo. Qui la violazione degli ordini anti-coronavirus, ritenuta la più rigorosa da applicare a livello nazionale in qualsiasi parte del mondo, è punibile con la reclusione fino a un anno.
L’inizio del coprifuoco è stato stabilito dalle 7 mattutine del 21, quando sirene antiaeree hanno suonato in tutta Amman, la capitale. L’annuncio, accompagnato il giorno prima dalle parole del ministro della Giustizia, Bassam Talhouni, intervistato in esclusiva dal canale di al-Mamlaka («Chiunque uscirà sarà soggetto a punizione»), aveva scatenato l’assalto alle panetterie e ai supermercati. Non era infatti immediatamente chiaro come ci si sarebbe dovuti comportare per il cibo o in caso di emergenze mediche. Le acque si sono un po’ calmate quando il governo ha annunciato una misura per rifornire la popolazione di cibo nella giornata di martedì e, successivamente, ha consentito di tornare nei negozi di alimentari pur con molte limitazioni. Intanto, però, la psicosi era scattata e, il giorno dopo, sono scattate anche le manette, in un Paese ormai militarizzato. La Giordania – primo Paese al mondo ad avere vietato qualsiasi movimento per quattro giorni consecutivi – ha confermato almeno 260 casi di coronavirus (4 i decessi) e ha utilizzato 34 hotel per mettere in quarantena chiunque fosse arrivato prima della chiusura dei confini, ma c’è notevole preoccupazione per l’alto numero di profughi che vive in tende o in campi, in condizioni precarie.
Non minore preoccupazione c’è in Libano, dove la popolazione di profughi è ugualmente altissima. Già militarizzato a causa della rivoluzione dello scorso ottobre, il Libano ha attivato misure sanitarie eccezionali che hanno permesso la rimozione forzata e permanente di qualsiasi presidio di protesta a Beirut e nelle altre città, imponendo una calma piatta e irreale. Qui, al 30 marzo, il numero di positivi da Covid-19 è salito a 446 e le morti registrate sono 11. I medici del Rafih Hariri University Hospital di Beirut lamentano di non avere abbastanza posti nelle terapie intensive, ma soprattutto descrivono la polmonite causata dal virus come «un film dell’orrore».
In Libano come altrove, molti speravano che Covid-19 non arrivasse ma si è avuto un certo tempo per abituarsi alle narrative (forse troppo rassicuranti) legate all’aggressione di questo indesiderato ospite: da diversi mesi, infatti, mezzo Paese seguiva un blogger libanese, diventato famoso per avere diffuso notizie in tempo reale da Wuhan, epicentro della diffusione del virus.
Il giovane si chiama Adham Al Sayed e spopola sui social media. Al Sayed – che imperterrito continua a documentare la vita nella città cinese, per dimostrare che non tutto era/è come sembra – apostrofa i suoi follower con un allegro: «Saluti da Wuhan! Qui niente panico!». Poi prosegue cercando di smontare la diffusione di stereotipi, disinformazione e speculazioni sulla vita a Wuhan, in particolare le narrazioni razziste anti-cinesi, assai diffuse sui social media quantomeno fino alla diffusione del virus nel resto del mondo.
Al Sayed è arrivato a Wuhan dal Libano cinque anni fa per conseguire un dottorato in economia quantitativa all’università della Scienza e della Tecnologia di Huazhong e consapevolmente ci è rimasto anche quando la situazione stava per precipitare. Ha iniziato a raccontare la vita in città per rassicurare i suoi familiari: «La mia famiglia e i miei amici in Libano si stavano davvero preoccupando. In questo modo, documentando la mia vita quotidiana, ero in grado di rassicurarli. Poi ho capito che potevo fare di più: per esempio, mostrare al mondo cosa sta realmente accadendo qui attraverso un feed live. Non sopportavo che la stampa e le persone sui social media utilizzassero questa crisi per dare addosso ai cinesi».
La realtà che Adham racconta è che a Wuhan, nonostante il blocco, l’ordine e la vita quotidiana «sono migliori di quanto non siano in molti altri Paesi». E specifica: «Non abbiamo visto un singolo crimine commesso durante questo periodo poiché la sicurezza e l’ordine sono rigorosi, tutti li rispettano, e non c’è stato alcun aumento dei prezzi o carenza di cibo e medicine. Le vacanze di primavera sono state prolungate, tenendo chiuse scuole e aziende. I nostri bisogni di base vengono soddisfatti in termini di cibo, bevande e medicine e l’università offre agli studenti che non vogliono uscire di casa fino a tre pasti caldi al giorno».
Tuttavia, Ahdam confessa di avere fatto anche lui una grande scorta di cibo e altri beni prima del blocco nazionale della provincia di Hubei, dove vivono più di 50 milioni di persone. Ma chiarisce: «Non perché avessi paura: lo faccio ogni anno prima che inizi il Capodanno». Chissà se i suoi connazionali, adesso, sarebbero d’accordo con lui.
Perché Diwan
La parola araba, di origine probabilmente persiana, diwan significa di tutto un po’. Ma si tratta di concetti solo apparentemente lontani, in quanto tutti legati dalla comune etimologia del “radunare”, del “mettere insieme”. Così, diwan può voler dire “registro” che in poesia equivale al “canzoniere”. Dove registro significa anche l’ambiente in cui si conserva e si raduna l’insieme dei documenti utili, ad esempio, per il passaggio delle merci e per l’imposizione dei dazi, nelle dogane. Diwan, per estensione, significa anche amministrazione della cosa pubblica e, per ulteriore analogia, ministero. Diwan è anche il luogo fisico dove ci si raduna, si discute, si controllano i registri (o i canzonieri) seduti (per meglio dire, quasi distesi) comodamente per sfogliarli. Questo spiega perché diwan sia anche il divano, il luogo perfetto per rilassarsi, concentrarsi, leggere.
Questo blog vuole essere appunto un diwan: un luogo comodo dove leggere libri e canzonieri, letteratura e poesia, ma dove anche discutere di cose scomode e/o urticanti: leggi imposte, confini e blocchi fisici per uomini e merci, amministrazione e politica nel Vicino Oriente. Cominciando, conformemente all’origine della parola diwan, dall’area del Golfo, vero cuore degli appetiti regionali, che alcuni vorrebbero tutto arabo e altri continuano a chiamare “persico”.
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Laura Silvia Battaglia, giornalista professionista freelance e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, è nata a Catania e vive tra Milano e Sana’a (Yemen).
Tra i media italiani, collabora con quotidiani (Avvenire, La Stampa, Il Fatto Quotidiano), reti radiofoniche (Radio Tre Mondo, Radio Popolare, Radio In Blu), televisione (TG3 – Agenda del mondo, RAI News 24, Tv2000), magazine (D – Repubblica delle Donne, Panorama, Donna Moderna, Jesus), testate digitali e siti web (Il Reportage, Il Caffè dei giornalisti, The Post Internazionale, Eastmagazine.eu).
Ha girato, autoprodotto e venduto vari video documentari. Ha vinto i premi Luchetta, Siani, Cutuli, Anello debole, Giornalisti del Mediterraneo. Insegna come docente a contratto all’Università Cattolica di Milano, alla Nicolò Cusano di Roma, al Vesalius College di Bruxelles e al Reuters Institute di Oxford. Ha scritto l’e-book Lettere da Guantanamo (Il Reportage, dicembre 2016) e, insieme a Paola Cannatella, il graphic novel La sposa yemenita (BeccoGiallo, aprile 2017).