Per gli iraniani Nowruz è come il Natale nei Paesi cristiani. Una festa degli affetti e delle famiglie, che coincide con il solstizio di primavera. Una festa irrinunciabile, che però quest'anno si arrende all'epidemia di Covid-19.
Negli ultimi decenni niente è riuscito ad impedire agli iraniani di celebrare il Nowruz, il capodanno di origine zoroastriana che coincide col solstizio di primavera ed è la festa nazionale per eccellenza, importante almeno quanto il Natale nell’Occidente cristiano. Né le guerre, né i terremoti, né gli embarghi e le sofferenze dell’economia nazionale. Nemmeno gli ayatollah che, nel fervore rivoluzionario del 1979, avevano cercato inutilmente di abolirlo per sostituirlo con qualche data sacra del calendario islamico.
Quest’anno, però, tutto è cambiato nei giorni dell’epidemia di Covid-19, l’ultima sciagura che si è abbattuta con particolare ferocia sul Paese e che getta un’ombra lugubre non solo sulla fine dell’anno iraniano 1398 ma anche sull’inizio del 1399, che cadrà il nostro 20 marzo. Negli scorsi anni queste erano le ore degli ultimi acquisti frenetici, i vestiti nuovi da regalare secondo tradizione, le torte e le caramelle per i bambini, i prodotti per decorare la versione iraniana dell’albero di Natale ovvero l’Haft Sin, il tavolo delle sette “s”, addobbato con oggetti o cibi che cominciano per “s” in persiano, simboli di prosperità, speranza, rinascita (uova, aglio, fiori, erba, monete, dolci, frutta ecc ). Poi arrivava la vigilia dell’ultimo mercoledì dell’anno, in persiano lo Charar Shambe-Soori, e in un rito di liberazione collettiva, che spesso si è trasformato in sfida a tutti i divieti e al soffocamento sociale del regime, milioni di persone scendevano in strada per preparare falò in tutte le città del Paese, appiccare fuoco alla legna e danzare e saltare sul fuoco per cacciare la sfortuna. Dopo qualche altro giorno – a seconda del calendario persiano – ecco finalmente il Nowruz, il «nuovo giorno» del nuovo anno, il momento speciale, atteso e preparato da mesi, per la festa con tutta la famiglia e specie con i parenti più anziani, i pranzi e le cene seduti a tavolate infinite, le ore passate a leggere le poesie di Hafez, i picnic nei prati tra gli alberi in fiore, vera passione nazionale.
Quest’anno, a scorrere i social, gli iraniani sanno che sarà un Nowruz completamente contrario al loro spirito. Nei bazar scivolano in fretta solo pochi passanti, le più famose pasticcerie di Teheran sono deserte, «sembrano nude» scrivono i giornali iraniani. Gli acquisti– secondo una stima approssimativa fatta dalla Camera di Commercio di Teheran- hanno raggiunto a malapena un decimo di quanto speso lo scorso anno. La gente ha paura e sta chiusa in casa. Se salterà sul fuoco, lo farà sulle proprie terrazze o nei propri cortili e il giorno del Nowruz i più annunciano che rimarranno solo con il nucleo familiare più ristretto o, se da soli, resteranno a guardare la televisione (ovviamente i canali occidentali). Del resto, le autorità chiedono di non mettersi in viaggio, di non uscire, di non far visita ai genitori. Eventi cancellati, musei chiusi e persino l’immenso mausoleo dell’imam Reza a Mashhad serrerà i suoi sette cancelli.
Tuttavia, almeno fino al momento in cui scriviamo, il governo si è rifiutato di bloccare e isolare completamente tutto il Paese o almeno le part più colpite, come Teheran e Qom. I numeri dei contagiati e dei morti sono da tragedia, le cifre ufficiali se la battono con la situazione italiana (che ufficialmente resta la peggiore dopo quella della Cina – ndr), ma la realtà iraniana potrebbe essere ancora più disperata. Un dato stupisce tra i morti per Covid-19: il 15 per cento ha meno di 40 anni. Segno di un virus più forte o dell’impossibilità degli ospedali di offrire cure adeguate? La sanità iraniana, nonostante l’impegno ai limiti dell’eroismo di medici e infermieri e la coscrizione generale di personale in pensione e giovani laureati, è al collasso. Mancano macchinari, mascherine, guanti, medicine. Il ministro degli Esteri Zarif ha inviato ai suoi colleghi una lista che sgomenta. L’Iran non può comprarli perché, a causa delle sanzioni statunitensi imposte dal presidente statunitense Donald Trump, il Paese è tagliato fuori dal sistema bancario internazionale. Inoltre l’embargo sulla vendita del petrolio iraniano ha svuotato le casse del governo di Teheran. In questi giorni la banca centrale iraniana ha chiesto un prestito di cinque miliardi di dollari al Fondo Monetario Internazionale, approfittando di uno stanziamento di 50 miliardi di dollari varato dall’Istituto per sostenere i Paesi più bisognosi nella lotta contro il nuovo coronavirus. Nulla è scontato. Arriverà una risposta positiva? O, anche in questo caso, la comunità internazionale si piegherà alle pressioni statunitensi abbandonando l’Iran al suo destino?
Tra i pochi che non rinunceranno alle feste, un amico di Teheran, Bahram, ci annuncia via Facebook che lui andrà a saltare sul fuoco per strada «come se non ci fosse un domani». «Sono stanco di questa sequenza perenne di disastri naturali o provocati dal regime. Però starò attento al coronavirus e non farò sciocchezze».
Perché Persepolis?
La città di Persepolis era il centro del mondo prima di Alessandro Magno e di Roma. Era simbolo di una stagione di convivenza e integrazione culturale per quell’immensa regione che chiamiamo Medio Oriente. Oggi le rovine della capitale politica dell’antico Impero Persiano si trovano nel cuore geografico di un’area che in pochi decenni ha visto e vede guerre disastrose, invasioni di superpotenze esterne, terrorismo, conflitti latenti e lacerazioni interne all’islam: eventi che sfuggono alle semplificazioni con cui spesso in Occidente si leggono le vicende di quel quadrante geografico e che richiedono pazienza nel ricercare i fatti e apertura nel valutarne le interpretazioni. È ciò che si sforzerà di fare questo blog, proponendo uno sguardo ravvicinato sulla cultura, la società, l’economia, la religione, le radici identitarie dell’Iran e dei territori a forte componente sciita, compresi tra il Mediterraneo e Hormuz, tra lo Yemen e l’Asia Centrale.
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Elisa Pinna, giornalista e scrittrice, è stata vaticanista, inviata per il Medio Oriente e corrispondente da Teheran per l’agenzia Ansa, oltre che collaboratrice di diverse testate italiane. Ha scritto libri sul pontificato di papa Benedetto XVI, sulle minoranze cristiane in Medio Oriente, sull’eredità dell’apostolo san Paolo. Con le Edizioni Terra Santa ha pubblicato Latte, miele e falafel: un viaggio tra le tribù di Israele e contribuito a Iran, guida storica–archeologica.