È un ragazzo smilzo, nato in una famiglia palestinese in Galilea, ma ha sfondato nel mondo dei vlogger, i blogger di video, dominato dagli occidentali, grazie a voglia di conoscere, determinazione e molti sorrisi. Nuseir Yassin – questo è il suo nome – è nato nel 1992 ad Arraba, una trentina di chilometri a nord di Nazaret, uno dei quattro figli di una insegnante e uno psicologo. Ha voluto spiccare il volo, vincendo una borsa di studio per frequentare l’Università negli Usa, niente meno che ad Harvard, e ha poi vissuto qualche tempo a New York dove lavorava per una grande azienda, ben pagato ma insoddisfatto. Nel 2016 così ha abbandonato la città e la carriera promettente. «Il lavoro era ripetitivo, volevo girare il mondo», ha raccontato. Per questo si è lanciato in un’avventura che lo ha reso celebre: documentare, con un video quotidiano di un minuto in inglese, mille giorni della sua vita in giro per i continenti.
Visitando oltre sessanta Paesi ha conquistato la curiosità e la simpatia di milioni di contatti. Con il nome Nas Daily, (al-nas in arabo vuol dire «persone»), ha preferito Facebook a Youtube. Come uno dei vlogger più seguiti al mondo, ha avuto centinaia di milioni di visualizzazioni, conquistati soprattutto grazie a messaggi di positività. Ha iniziato il lungo tour dal Kenya, trovando sponsor da una società russa, ha mostrato luoghi poco conosciuti del pianeta, storie curiose di persone e culture. Intanto ha conosciuto Alyne, una ragazza israelo-statunitense che è diventata sua partner nel lavoro e nella vita (dall’India, il video del matrimonio), e ha ampliato rapidamente il numero di collaboratori e il giro di affari, come succede alle star del Web. All’inizio del 2019 ha portato a compimento il progetto dei mille clip, si è trasferito a Singapore, ha scritto un libro, progetta di creare una serie Tv e, forse, di lanciarsi in politica. Sì, perché Nuseir non ha dimenticato la terra da cui proviene e i modi in cui ne ha parlato gli hanno attirato simpatie e critiche, come sempre accade tra israeliani e palestinesi quando si toccano temi sensibili.
Messaggi distensivi, in bilico tra fazioni
Anche se il tono dei suoi contributi è quasi sempre leggero e positivo – più intrattenimento che citizen journalism –, talvolta tocca temi esplicitamente politici. Alla vigilia delle recenti elezioni israeliane del 2 marzo, ha descritto Israele come sei Paesi in uno (ebrei, arabi, ultra-ortodossi, abitanti di Tel Aviv, etiopi, turisti). «Ognuno di questi Israele – affermava – ha la sua economia, la sua popolazione e le sue opportunità, ma non interagiscono, non si mescolano e non sono uguali. Non abbiamo bisogno di sei Israele, ma di uno solo, per tutti».
L’osservazione sulle profonde divisioni nella società israeliana, che si riflettono nella frammentazione politica (il Paese è andato al voto tre volte in un anno) non è nuova, ma arriva da un appartenente alla minoranza araba che ha un vasto seguito di pubblico. Nuseir ha un messaggio di incontro, un invito alla conoscenza reciproca. In Jews vs. Arabs, uno dei suoi video più condivisi e più lunghi (dura quattro minuti), dialoga con alcuni haredim in una strada di Gerusalemme, mettendo in luce quanta poca conoscenza ci sia tra persone che vivono separate nella stessa città, con i loro fardelli di diffidenza, odio e razzismo. Nato da un incontro casuale, è diventato per lui il video più significativo. «La maggioranza delle persone non desidera la guerra», dice. Il messaggio è semplice, ma anche il solo pronunciarlo attira critiche. In un altro video descrive la città divisa in due, quasi due città chiamate «Jeru» e «Salem» con, in mezzo, i cristiani. «Ma nella realtà, Gerusalemme appartiene a tutti», conclude.
I critici: «palestinese privilegiato»
Molti palestinesi lo accusano di comportarsi da «buon arabo», come gli ebrei si aspettano che sia (arrivando ad etichettarlo come «pericoloso sionista»). Gli rimproverano di non affrontare i problemi più laceranti, come le occupazioni e il diritto al ritorno, o le agonizzanti speranze di pace. O, più semplicemente, notano che, come cittadino israeliano, può fare ciò che centinaia di migliaia di ragazzi palestinesi nei Territori non possono fare: spostarsi. Esseri visti come privilegiati può attirare risentimento: nel video n. 508, intitolato People hate me, non lo nasconde.
In un’intervista a The Tablet, l’autorevole settimanale cattolico pubblicato a Londra, Nuseir Yassin ha raccontato il suo desiderio di normalizzare le parole «arabo», «musulmano», «Israele», perché gli arabi possono avere successo, i musulmani possono essere tolleranti, e perché anche Israele può esistere. «Sono spinto dalla rabbia – confessa –, anche se la gente non lo vede perché sorrido sempre. Mi fa rabbia che gli estremisti ottengano tante visualizzazioni e clic sui social media. Sembra che tutto il mondo sia arrabbiato, ma in realtà lo solo sono solo quelli che fanno più rumore, mentre gli altri restano in silenzio». (f.p.)