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Egitto e Israele, due approcci al coronavirus

Fulvio Scaglione
20 marzo 2020
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Contro la pandemia del Covid-19 il governo egiziano tende a minimizzare e nascondere un problema che non avrebbe comunque modo di affrontare con efficacia. Quello israeliano, invece, non nasconde l'allarme e mette in campo i servizi segreti.


Il Covid-19 e due grandi Paesi del Medio Oriente, l’Egitto e Israele. Le autorità del Cairo hanno scelto la strada della negazione. Fino a pochi giorni fa erano ufficialmente ammessi solo 166 casi di contagio, un dato non molto credibile visto che quasi un centinaio di stranieri, che erano stati in Egitto, già risultava positivo a metà febbraio. Gli infettivologi dell’Università di Toronto, dove vive una corposa diaspora egiziana, hanno fatto delle simulazioni basate su dati di compagnie aere e agenzie di viaggio, incrociandoli con i tassi di infettività. Risultato: pur scartando i casi dubbi, l’ipotesi è che in Egitto ci siano almeno 20 mila persone portatrici del virus.

La corrispondente del Guardian dal Cairo, Ruth Michaelson, ha dato notizia dello studio canadese, e si è subito vista ritirare l’accredito stampa. Il ministero dell’Informazione, inoltre, ha chiesto al giornale di smentire e scusarsi. Al di là delle ragioni, diciamo così, di “ordine pubblico”, è chiaro che il governo del presidente Abdel Fattah al-Sisi teme le conseguenze economiche della pandemia. L’industria del turismo vale, in Egitto, circa 13 miliardi di dollari l’anno e il blocco farà moltissimi danni.

Ma il vero pericolo viene dall’incrocio tra un sistema sanitario fragile e un sistema carcerario allucinato. In Egitto, oggi, ci sono tra 40 e 60 mila “prigionieri politici”. Già nel 2015, un rapporto del National Council for Human Rights denunciava un sovraffollamento del 300 per cento nelle celle delle stazioni di polizia e del 160 per cento nelle prigioni. Figuriamoci oggi. E figuriamoci quel che potrebbe succedere se il virus dilagasse tra i detenuti.

In Israele, invece, i contagiati ufficiali, secondo i dati del ministero della Sanità, sono circa 700 e due ministri sono in quarantena dopo essere entrati in contatto con una persona positiva al test. Il diffondersi della malattia, qui, non è stato nascosto. Al contrario. Ma la pubblica ammissione è servita anche a introdurre una strategia di contenimento che ora preoccupa molti. Il premier Netanyahu ha messo in campi i servizi segreti, autorizzandoli, di fatto, a spiare l’intera nazione in nome della salute collettiva. Da diversi anni, infatti, Israele ha sviluppato un sofisticato sistema di tracciamento che mette insieme diverse tipologie di dati: la posizione dei telefoni cellulari; le telecamere sparse per le strade, soprattutto nelle città “cruciali”; il monitoraggio della navigazione in Rete, soprattutto attraverso i social network e le ricerche su Google e gli altri motori. Sistema utilizzato finora soprattutto per tenere d’occhio i palestinesi ma che adesso viene impiegato per controllare i movimenti delle persone che potrebbero diffondere il virus.

Per far passare il provvedimento senza affrontare un voto in Parlamento, dove non ha la maggioranza, Netanyahu è ricorso alle leggi di emergenza che furono approvate nel 1939 dagli inglesi, durante il loro Mandato sulla Palestina, al momento in cui occorreva combattere il nazismo. Dall’indipendenza di Israele, nel 1948, queste leggi speciali sono state usate soprattutto contro i palestinesi e raramente contro gli israeliani. Mai, comunque, in questo modo collettivo. La magistratura israeliana ha imposto al governo di cancellare i dati dopo 30 giorni. Molti, inutile dirlo, temono che ciò non avverrà. E vedono nelle attuali decisioni un rischio grave per la democrazia di Israele.


 

Perché Babylon

Babilonia è stata allo stesso tempo una delle più grandi capitali dell’antichità e, con le mura che ispirarono il racconto biblico della Torre di Babele, anche il simbolo del caos e del declino. Una straordinaria metafora del Medio Oriente di ieri e di oggi, in perenne oscillazione tra grandezza e caos, tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e declino. Proveremo, qui, a raccontare questa complessità e a trovare, nel mare degli eventi, qualche traccia di ordine e continuità.

Fulvio Scaglione, nato nel 1957, giornalista professionista dal 1981, è stato dal 2000 al 2016 vice direttore di Famiglia Cristiana. Già corrispondente da Mosca, si è occupato in particolare della Russia post-sovietica e del Medio Oriente. Ha scritto i seguenti libri: Bye Bye Baghdad (Fratelli Frilli Editori, 2003), La Russia è tornata (Boroli Editore, 2005), I cristiani e il Medio Oriente (Edizioni San Paolo, 2008), Il patto con il diavolo (Rizzoli, 2016). Prova a raccontare la politica estera anche in un blog personale: www.fulvioscaglione.com

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