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È l’ora degli arabi israeliani

Giorgio Bernardelli
16 marzo 2020
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Proprio mentre in Israele il premier Netanyahu parla di escludere la Lista araba da un possibile governo di unità nazionale, nelle équipe che in ospedale lottano per curare i malati di coronavirus è impossibile trovarne una in cui non ci sia un contributo significativo di medici e infermieri arabi.


In queste ore in Israele l’aggravarsi dell’emergenza Covid-19 si sta intrecciando con il difficile dopo-elezioni. Oggi è prevista la cerimonia di insediamento della nuova Knesset che – per prevenire il diffondersi del contagio – avviene in una modalità decisamente anomala: i parlamentari entreranno a giurare a piccoli gruppi composti da poche persone, mentre il discorso inaugurale il presidente Reuven Rivlin lo pronuncerà davanti a un’aula semivuota, alla presenza dei soli leader degli schieramenti.

Al di là delle formalità nei riti della politica israeliana, il coronavirus sta avendo comunque un impatto fortissimo sulla crisi di governo che si trascina da ormai più di un anno nel Paese. L’epidemia sta colpendo duramente anche Israele: ad oggi sono saliti a 250 i casi accertati; e nonostante il ministero della Salute sia stato tra i primi al mondo a chiudere ermeticamente i confini il virus si sta propagando anche attraverso il contagio interno. Questo ha portato sabato sera il governo Netanyahu ad adottare misure drastiche come la chiusura delle scuole fino a dopo le festività di Pesach (cinque settimane), lo stop a negozi e attività non essenziali, il divieto di riunione per gruppi superiori a 10 persone (che è poi la soglia minima di un minyan, cioè il numero di uomini adulti richiesto per i riti religiosi comunitari ebraici). In Israele ci sono decine di migliaia di persone già in quarantena e lo Shin Bet – il servizio di sicurezza interno – ha avuto il via libera a utilizzare il tracciamento dei cellulari per assicurarsi che l’obbligo sia rispettato.

In una situazione del genere l’ultima cosa che l’opinione pubblica vorrebbe vedere è l’ennesimo scontro all’arma bianca sulla formazione del governo. Sapendo di non avere comunque i numeri – la sua coalizione di destra si ferma a 58 deputati su 120 – Netanyahu ha provato a giocare con Blu e Bianco, il principale partito dell’opposizione, la carta del governo di emergenza per gestire l’epidemia. Dalla sua il premier uscente ha anche il rinvio del processo a suo carico che sarebbe dovuto iniziare domani e invece slitterà di almeno due mesi proprio per il coronavirus. Gantz però (con l’appoggio di Lieberman) stavolta l’ha spiazzato mischiando le carte: se governo di unità nazionale deve essere, gli ha risposto, tutte le forze presenti alla Knesset devono essere rappresentate. Quindi anche la Lista araba, che conta 15 seggi.

La cosa ha mandato su tutte le furie il Likud e i suoi alleati della destra, che continuano a sostenere che il partito di Ayman Odeh deve essere «lasciato fuori dall’equazione» della democrazia israeliana. Ma Gantz è andato avanti lo stesso e ieri nelle consultazioni che ha tenuto il presidente Rivlin ha incassato il risultato di veder indicato il suo nome come candidato premier da 61 deputati. Cioè la maggioranza della Knesset. Per questo Rivlin ha già annunciato che gli conferirà l’incarico, anche se ieri sera ha convocato insieme Gantz e Netanyahu insistendo sulla necessità di arrivare a un governo che sia davvero di unità nazionale in un momento così difficile per il Paese.

Solo i prossimi giorni diranno se davvero Gantz riuscirà a formare il governo della lotta al coronavirus. Un fatto però vale la pena di sottolinearlo: visto dalla trincea degli ospedali – il punto di osservazione privilegiato dell’epidemia – il dibattito sull’opportunità o meno di inserire gli arabi nell’equazione della democrazia israeliana appare del tutto surreale. Proprio la sanità infatti è uno degli ambiti dove il contributo degli arabi israeliani appare più evidente. Lo sottolineava qualche giorno fa lo stesso Odeh, dicendo che proprio mentre Netanyahu parlava di escludere la Lista araba dal governo di unità nazionale nelle équipe che in ospedale lottano per curare i malati di coronavirus è impossibile trovarne una in cui non ci sia un contributo significativo di medici e infermieri arabi.

Si tratta di un’osservazione difficile da confutare: un articolo su Israel21 raccontava qualche anno fa la storia di Arraba, il villaggio arabo della Galilea che conta uno dei tassi più alti di laureati in medicina al mondo. E citava stime che parlano di un 35 per cento di dottori arabi tra le fila della sanità israeliana. Giusto l’estate scorsa, poi, il Jerusalem Post intervistava la dottoressa Shaden Salameh, che all’ospedale di Hadassh, il grande ospedale di Gerusalemme, è la responsabile del pronto soccorso. Alla domanda sul fatto di essere la prima araba-israeliana in quel ruolo rispondeva: «Io guardo alle persone da curare e basta». Va aggiunto che lo stesso sguardo viene esercitato quotidianamente da tanti colleghi di matrice ebraica. E proprio questo ha reso la sanità israeliana uno degli ambiti dove anche nelle stagioni più calde del conflitto non è mai mancata la collaborazione al servizio di chi soffre. Tra l’altro anche il più grave paziente attualmente in cura per il coronavirus è un autista arabo trentottenne di Gerusalemme Est, che tutti stanno cercando di salvare. E pure le autorità sanitarie di Israele e della Palestina, nonostante tutto, stanno collaborando per fronteggiare l’epidemia.

È una parabola interessante quella che il coronavirus sta portando davanti agli occhi in Terra Santa. E se passasse proprio dalla lotta a questo nemico molto diverso rispetto a quelli indicati solitamente la ridefinizione dell’identità di Israele?

Clicca qui per leggere l’intervista alla dott.sa Shaden Salameh dell’Hadassah Hospital

Clicca qui per leggere l’articolo di Israel 21 sul villaggio di Arraba

 


 

Perché La Porta di Jaffa

A dare il nome a questo blog è una delle più celebri tra le porte della città vecchia di Gerusalemme. Quella che, forse, esprime meglio il carattere singolare di questo luogo unico al mondo. Perché la Porta di Jaffa è la più vicina al cuore della moderna metropoli ebraica (i quartieri occidentali). Ma è anche una delle porte preferite dai pellegrini cristiani che si recano alla basilica del Santo Sepolcro. Ecco, allora, il senso di questo crocevia virtuale: provare a far passare attraverso questa porta alcune voci che in Medio Oriente esistono ma non sentiamo mai o molto raramente.

 

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