Israele terra di tensioni, appartenenze, mancanze: una situazione che favorisce però, nella sua ormai quotidiana e quasi banale drammaticità, una fucina di creatività di ogni origine, genere e categoria della sfaccettata galassia dell’arte contemporanea. Piuttosto vivace è il panorama musicale, così come quello legato alla danza e alle attività performative più ampie. Ma è dalle accademie e scuole di arte, però, che stanno emergendo talenti, in particolare arabi e femminili, di grande originalità. Voci che mettono a nudo la memoria di una terra perduta e rubata, le ingombranti tradizioni che ancora incatenano le donne, la poesia dei paesaggi e dei luoghi del cuore. Un’arte che è al tempo stesso espressione di sofferenza, di orgoglio, di rivendicazione e di appropriazione del proprio corpo come strumento forte di indipendenza. Tre nomi stanno risuonando anche al di fuori dei confini del Paese, con presenze in importanti gallerie, rassegne e musei di Europa e Stati Uniti.
I tappeti enigmatici di Fatma Shanan
Nata nel 1986 a Julis, un piccolo villaggio druso nell’estremo nord del Paese, Fatma Shanan è una pittrice che oggi vive e lavora a Tel Aviv. La sua è una pittura vivace e policroma su grandi formati, principalmente con tecnica dell’olio su tela. Le sue opere trasmettono una visione teatrale e quasi fotografica di scene e luoghi a lei familiari: la terrazza della bianca casa tradizionale, il campo, gli ulivi, gli interni di abitazioni. Una costante che ricorre in quasi ogni sua opera è il tappeto, elemento fondamentale dell’arredamento della casa drusa, che viene trattato con una sorta di timore esagerato: non può essere calpestato, non deve sporcarsi. Le donne se ne occupano ossessivamente: pulendolo, sbattendolo, spazzolandolo. Shanan però lo rimuove spesso dal contesto originale per posizionarlo in modo sovversivo e inconsueto.
Contesa dalle principali gallerie d’arte israeliane e internazionali, ha esposto a Tel Aviv, Berlino, Düsseldorf, New York e in California. Non ama essere definita un’artista donna o un’artista drusa, bensì semplicemente un’artista. È indubbio però che la sua cultura d’origine sia fonte di ispirazione e permei tutta la sua arte. Espressamente non politicizzata, la sua arte però testimonia: la donna è al centro della sua creatività pittorica, spesso tramite la forma dell’autoritratto e del corpo femminile. I suoi sono quadri interpellano chi guarda: enigmatici e magnetici nella loro semplicità.
Samah Shihadi, resistenza palestinese in bianco e nero
Decisamente con un approccio più politico è l’opera di Samah Shihadi, nata nel villaggio arabo di Sha’ab, poco a nord di Haifa, nel 1987. I suoi delicati disegni a matita e a carboncino su carta sono spesso incentrati sull’identità della donna araba. Una delle sue opere più rappresentative è «Madre e figlia», raffigurante la madre dell’artista mentre accarezza un grande albero che cresce da una fioriera ricavata da un rudimentale bidone in metallo.
Il disegno allude alla natura tenace del popolo palestinese, che continua a prosperare nonostante sia stato rimosso dalla sua terra e fa riferimento anche a tre generazioni di donne nella famiglia dell’artista: il legame tra la nonna e sua madre, per mezzo dell’albero, e il legame tra sua madre e lei stessa. Ha dichiarato infatti la pittrice: «Mia nonna piantò l’albero nel bidone dove si trovava la sua casa e questo è cresciuto fino a raggiungere dimensioni enormi. Dalla sua morte, quello è stato il luogo in cui la mia famiglia si riunisce per ricordarla, pregare e mangiare».
Numerose sue opere si riferiscono alla Nakba («la catastrofe», così i palestinesi definiscono la nascita dello Stato di Israele e la perdita della propria patria): l’artista afferma di essere cresciuta nel ricordo dell’espulsione nel 1948, ancora molto vivo nella sua famiglia.
In «Paesaggio» raffigura cespugli di fichi d’India scuri e cupi che marcano i confini dei villaggi palestinesi in rovina, o nella commovente «La nostra casa» ritrae i suoi genitori da lontano, seduti su sedie di plastica posizionate su una superficie che simboleggia la loro casa che è stata spazzata via, o ancora in «Picnic» si vede un tappeto steso a terra su cui sono posti recipienti e piatti, con le rovine di un villaggio sullo sfondo.
Tradizionalmente nel mondo arabo-israeliano la figura di una giovane donna che studia arte e diventa una pittrice non è qualcosa di consueto e quel tipo di aspirazione è estranea a quella società. Ma Shihadi ha ribaltato questo schema e ora vive del suo lavoro di artista. Rispetto al contesto arabo-israeliano, l’artista spiega che qui le donne difficilmente hanno voce e spesso vengono trattate come oggetti: nelle sue opere cerca di portare alla luce temi che riguardano le donne in situazioni di forza, debolezza, tristezza, ribellione. Inoltre il suo lavoro rappresenta una critica alla società patriarcale in cui il destino di una donna è solo quello di essere moglie e madre, e se non adempie a questo, non conta nulla. Shihadi è però speranzosa: pur lentamente, afferma che oggi è in atto un cambiamento.
Hannan Abu-Hussein, installazioni contro i tabù
Infine, delle nuove artiste arabo israeliane, Hannan Abu-Hussein è quella certamente più critica. Classe 1972, nata in un villaggio della Galilea del nord, oggi vive e lavora a Beit Safafa, cittadina palestinese a sud di Gerusalemme, è autrice di installazioni il cui soggetto sono temi tabù nel mondo palestinese: l’oppressione e la violenza contro le donne nella società araba e il controllo patriarcale sul corpo femminile.
Abu-Hussein ha ostinatamente voluto seguire il suo cammino di artista pur con tutta la famiglia contro e si è laureata alla prestigiosa Accademia Bezalel a Gerusalemme. Per rendere l’idea di quanto sia dirompente la sua arte, basti pensare che all’inaugurazione della sua prima mostra, suo padre quasi svenne e non volle più parlarle. Una delle sue opere più provocatorie è un’installazione ispirata a un rituale tradizionale arabo in cui viene messa alla prova la verginità di una donna ed è composta da una collezione di calze appese al soffitto con un uovo di ceramica all’interno di ognuna. L’installazione ha creato scandalo, e l’imam di Jaffa ha invitato a boicottare la sua esposizione.
Hussein crea anche video-installazioni, come «My Mother Blanket #2» (2019), che ritrae due lenzuola appese a un muro: si tratta di tipici manufatti che costituiscono la dote che una sposa nella società araba deve portare alla famiglia dello sposo. O come «Mashkhara» (lutto) creato dopo la morte del padre, dove si vede l’artista seduta sul pavimento che indossa una djellaba bianca appartenuta al padre. Accanto a lei c’è un mucchio di carbone, un collegamento al suo luogo di nascita, Umm al-Fahm, noto per la sua produzione di carbone. Con il carbone a poco a poco si annerisce il viso, il corpo e la djellaba: un riferimento al lamento e al dolore per la perdita del genitore, con cui ha avuto una relazione travagliata.
Una parte significativa del suo lavoro è dedicata alla barbara tradizione del delitto d’onore. In «Sharaf» (onore), ha esposto circa 300 coltelli fissati al soffitto, per illustrare la minaccia avvertita da una donna che subisce violenza. La serie dei coltelli è nata per denunciare l’omicidio delle donne arabe, assassinate dai familiari maschi perché ritengono che il corpo della donna sia di loro proprietà. Questo sentimento si riflette nel carattere patriarcale della società arabo-israeliana, dove nella maggior parte delle famiglie le donne non hanno la capacità di prendere decisioni. Gli uomini temono la libertà della donna perché se concedono la libertà vi sarà un cambiamento della società.