Il coronavirus è arrivato a Gaza. Due palestinesi, rientrati nella Striscia attraverso il valico di Rafah al confine con l’Egitto, sono risultati positivi sabato 21 marzo al test del Covid-19. Hanno febbre alta, tosse secca e sono stati messi in quarantena in un ospedale da campo allestito già in febbraio a ridosso della frontiera. L’annuncio è stato dato dal viceministro della salute del governo di Hamas (che controlla la Striscia), Youssef Abulreesh. Immediatamente – riferiscono i media arabi – si è diffuso il panico, perché Gaza non è un posto qualsiasi e l’epidemia, più che altrove, può trasformarsi in una tragedia di proporzioni inimmaginabili.
Una Sanità al collasso
Il sistema sanitario della Striscia è collassato da tempo e non riesce a far fronte nemmeno alle necessità di base di una popolazione di quasi due milioni di abitanti, impoverita, affamata e resa particolarmente vulnerabile da oltre 13 anni di assedio israeliano e di semi-chiusura della frontiera egiziana. Il blocco di terra, di mare e via aerea imposto da Israele ha ridotto al minimo l’arrivo di macchinari sanitari. Nelle tre guerre tra Hamas e lo Stato ebraico, succedutesi dal 2007, l’aviazione israeliana ha distrutto diverse infrastrutture civili, tra cui ospedali e una centrale elettrica. Attualmente, nella Striscia, ospedali, case e uffici hanno energia per 4-6 ore al giorno. In tutta Gaza ci sono 2.895 posti letto, una media di 1,3 per ogni mille abitanti e solo una cinquantina di ventilatori per adulti. Gaza – a giudizio del locale ufficio dell’Organizzazione mondiale della sanità (oms) citato dai media locali – è in grado di curare nei propri ospedali un massimo di un centinaio di malati da coronavirus e avrebbe comunque bisogno di almeno 400 medici in più, oltre che di attrezzature sanitarie adeguate.
L’alta intensità abitativa alleata del virus
A ciò si deve aggiungere che la Striscia, in tutto 360 chilometri quadrati, è uno dei luoghi a più alta densità di popolazione del mondo, con picchi inverosimili. Nel solo campo profughi di Jabaliah, uno degli otto esistenti nella Striscia, abitano ad esempio 140 mila palestinesi in meno di due chilometri quadrati. Come potranno adeguarsi all’appello fatto dal viceministro della Sanità di Hamas, di mantenere il distanziamento sociale e di restare per lo più chiusi in casa per evitare il contagio?
Tra le altre misure precauzionali, le autorità locali avevano già adottato dalla settimana scorsa la chiusura dei caffè, dei ristoranti e l’annullamento della preghiera collettiva del venerdì. Chi rientrava dall’Egitto, si doveva mettere in autoisolamento o, in casi sospetti, veniva rinchiuso d’autorità in quarantena in edifici predisposti per l’emergenza, dove già in pochi giorni, in condizioni di scarsa igiene e sovraffollamento, si trovano circa 1.800 persone, secondo quanto riferisce l’emittente panaraba Al Jazeera.
Il 2020 è l’anno in cui l’Onu aveva previsto che Gaza sarebbe diventata invivibile, se Israele non avesse alleggerito l’assedio, l’Egitto riaperto la frontiera, e la società internazionale dato prova di maggiore generosità per la ricostruzione economica, materiale e psicologica della Striscia. Non aveva messo in conto il coronavirus che rischia di aprire ora una prospettiva ancora più terrificante.