Cinque anni di guerra, 100mila morti, milioni di persone piegate da malnutrizione e povertà assoluta. A tutto ciò si aggiunge l’isolamento a cui il Paese è condannato dalla chiusura dei confini e dalla scarsa informazione su quanto accade nel suo territorio.
Lo Yemen è appena entrato nel suo sesto anno di guerra e nessuna concreta ed effettiva soluzione di pace viene avanzata. A questo si aggiunga la preoccupazione crescente che nel Paese attecchisca l’epidemia da Covid-19, preoccupazione che si è manifestata in una forma di isteria collettiva in questi giorni, quando un uomo appena rientrato dall’Egitto si è presentato al pronto soccorso dell’ospedale di Aden con sintomi simil-influenzali. «Dopo avere appreso la sua storia e alcuni altri dettagli si è ritenuto che potesse presentare i sintomi del nuovo coronavirus e gli è stata data la diagnosi provvisoria di positività. Tutto il personale medico, così come i pazienti nell’area di attesa hanno immediatamente lasciato l’ospedale in preda al panico, stigmatizzando l’uomo e quasi linciandolo».
La dottoressa Sameh al-Awlaqi racconta l’episodio a Terrasanta.net, mezz’ora dopo la pubblicazione del commentary sul sito del più importante think tank yemenita online, il Sanaa Center. In realtà, il paziente è stato sottoposto a tampone e il risultato del test è stato negativo. «Ma quello che è successo in ospedale è stato scioccante – dice al-Awlaqi -. Se la paura e lo stigma hanno guidato il comportamento dei presenti, ciò che desta più allarme è la reazione inaspettata da parte degli operatori sanitari. È preoccupante che gli operatori sanitari nello Yemen non abbiano ancora ricevuto una formazione adeguata e le giuste protezioni contro Covid-19. Qui è urgente prendere misure serie sulla preparazione, formazione e identificazione dei pazienti e sulla gestione dei casi e bisogna dotare gli ospedali, sia pubblici che privati, di set di test, protocolli di trattamento e strumenti di protezione». La dottoressa al-Awlaqi, che ha lavorato per anni per l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in Yemen, ne fa anche una questione di emergenza sociale: «Le misure per affrontare lo stigma sociale sono anch’esse fondamentali per alleviare l’impatto della diffusione del virus e per garantire la dignità delle persone colpite. Il sistema sanitario debole, le scarse infrastrutture idriche e igieniche e le norme sociali che incoraggiano i contatti stretti e conviviali – come il rito pomeridiano della masticazione del qat (le foglie di questa pianta, masticate, producono effetti allucinogeni – ndr) – sono tra i fattori che renderebbero esplosiva la diffusione di questo virus nello Yemen. E l’episodio appena registrato ci dà la misura di cosa potrebbe succedere se il coronavirus arrivasse qui: l’inizio della catastrofe permanente».
Timori fondati
La riflessione di al-Awlaqi non è frutto di esagerazione. Il rappresentante dell’Oms in Yemen, Altaf Musani, l’ha definita «la potenziale tempesta perfetta» nonostante in questo momento, rispetto alle statistiche ufficiali Oms, solo un Paese della regione del Mediterraneo orientale (Emro) che comprende 22 Paesi e territori, rimanga ufficialmente privo di casi confermati: lo Yemen appunto.
Il dottor Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’organizzazione internazionale, avverte che, dopo la Cina e l’Europa, la terza ondata toccherà ai Paesi con sistemi sanitari più deboli, crisi umanitarie e conflitti. E il clima dello Yemen lo rende vulnerabile a tutte le possibilità. Di più: le regioni settentrionali del Paese, caratterizzate da un’alta densità di popolazione e da un clima freddo e secco, sarebbero assai più suscettibili alla trasmissione del virus a basse temperature. Per questo, in quelle aree ci si sta attrezzando: il governo dei ribelli Houthi ha chiuso (per quel poco che restava aperto) l’aeroporto e le frontiere di terra, limitando il passaggio ai soli beni essenziali, ed è stata appena aperta una fabbrica tessile dove, da metà marzo, 20 donne pagate a cottimo siedono ininterrottamente alle macchine per cucire mascherine di protezione, sempre più richieste nelle farmacie. A Sana’a ha appena riaperto una struttura impiantata dai cinesi nel 1967 per la produzione di manufatti di cotone. In parte danneggiata da un bombardamento della coalizione internazionale a guida saudita, è stata resa agibile velocemente in questi giorni. Il proprietario Abdullah Shaiban ha deciso di trasformare la sezione della fabbrica destinata alla produzione di vestiti, in favore della crisi incombente. «Con 80 macchinari a disposizione possiamo produrre fino a 10mila mascherine al giorno». E l’ultima nuova fabbrica, aperta alla bisogna nella capitale del Nord, produce disinfettante per le mani.
Nonostante gli sforzi, c’è anche chi la prende poco sul serio. Sui social e nei salottini della masticazione del qat, gli yemeniti non sono ancora così convinti della pericolosità del virus e in molti si fanno immortalare con degli imbuti sul volto a mo’ di mascherine. Ma c’è poco da ridere e da sdrammatizzare, stavolta.
Colera, fame e altri flagelli
Durante la guerra, in Yemen è stato registrato il maggior numero di casi sospetti di colera nella storia recente, con oltre 2,3 milioni di casi segnalati dal 2017. Senza contare la dengue e la malaria, che in questi anni hanno anch’esse mietuto parecchie vittime. «Avendo lavorato in Yemen durante il 2019 – testimonia la dottoressa Sameh al-Awlaqi – posso affermare che il sistema sanitario locale lotta strenuamente per far fronte all’elevata domanda di servizi sanitari essenziali e soffre di una carenza enorme di posti letto e ventilatori in terapia intensiva. Gli aiuti esterni svolgono un ruolo vitale nel salvare vite umane e nel proteggere il nostro sistema sanitario dal collasso totale ma temo che non basterà».
Infine, un altro fattore d’allarme aggrava il quadro: secondo l’Unicef, oltre 7 milioni di yemeniti hanno bisogno di cure o servizi per la malnutrizione, compresi 2 milioni di bambini sotto i cinque anni e 1 milione di madri in gravidanza e in allattamento, bisognosi di cure urgenti in quanto affetti da malnutrizione acuta. «La malnutrizione acuta – sottolinea al-Awlaqi – riduce l’immunità corporea se è non curata, peggiorando potenzialmente l’impatto del coronavirus tra queste comunità».
Ce ne sarebbe abbastanza per convincere i signori della guerra a desistere da uno stato delle cose profittevole per pochi e terribile per troppi e per aderire alla richiesta del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres di un cessate il fuoco in tutto il mondo. Ma mentre in Yemen si prega affinché Covid-19 non arrivi e la popolazione osserva con apprensione quanto accade in Italia, la pace è un traguardo che si vorrebbe imperativo ma che appare solo futuro e, soprattutto, remoto.