Com’è ormai tradizione, a gennaio si tiene anche a Gerusalemme la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Iniziata al Santo Sepolcro sabato 25 gennaio, si è conclusa il 2 febbraio presso la chiesa greco-cattolica dell’Annunciazione.
Durante questa settimana, i fedeli delle diverse Chiese di Gerusalemme si sono incontrati e hanno pregato per l’unità dei cristiani di tutto il mondo, ma specialmente per quelli della Terra Santa. Presso il Patriarcato latino di Gerusalemme, la celebrazione si è tenuta mercoledì 29 gennaio. Qui il l’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico, ha tenuto un’omelia nella quale, anche con una certa severità, ha denunciato le divisioni e le ostilità che da secoli sono vere e proprie ferite nell’unico corpo della Chiesa. «Le nostre divisioni sono l’evidente dimostrazione che nel nostro parlare, nei nostri orientamenti e nelle nostre strategie, il riferimento principale non è Gesù e l’ascolto del suo insegnamento ma, nel migliore dei casi, la nostra idea di Gesù.
Sappiamo molto bene, infatti, dalla storia che abbiamo ascoltato più noi stessi, gli interessi di carattere politico, la paura di perdere il potere acquisito. Più che servire Gesù, ci siamo serviti di Gesù».
E ancora: «Gerusalemme non è mai stato il luogo dove queste divisioni sono nate. Le divisioni sono nate nei vari centri di potere: da Roma a Costantinopoli, dall’Asia, fino al Nord Europa e nelle altre parti del mondo. Gerusalemme, tuttavia, è il luogo dove le divisioni sono confluite e dove questa ferita profonda nell’unico Corpo di Cristo, la Chiesa, è evidente, tangibile e dolorosa». Non siamo ancora in grado di condividere il Pane eucaristico tra di noi – ha rimarcato il vescovo – e «la strada per ritrovarci è ancora lunga».
L’omelia di mons. Pizzaballa ha avuto una certa eco anche al di fuori di Gerusalemme. Sicuramente le comunità cristiane in Terra Santa sono più unite e solidali rispetto ai tempi passati. La qualità delle relazioni è certamente migliorata, ma è quanto mai importante rafforzare gli elementi di unità ed eliminare ciò che divide. Di qui un impegno che non deve conoscere pause o disimpegni.
«Questo – ha concluso il presule – significa sporcarsi le mani, compromettersi, coinvolgersi, mettere la nostra vita nelle mani di chi ci è affidato, delle nostre comunità così come sono, dimentichi di noi stessi, pagando a volte un prezzo non indifferente, in termini di relazioni, incomprensioni, opposizioni, solitudini… Del resto, fare dono di sé, significa anche un po’ morire, come Gesù sulla croce. Non si fa dono di sé, senza pagare alcun prezzo. Non dimentichiamo che l’Eucarestia è anche sacrificio».
Eco di Terrasanta 2/2020
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