L’attuale fase storica in Medio Oriente ci propone la guerra mai conclusa in Siria, le grandi manifestazioni di piazza in Iraq e in Libano, lo sfilacciamento del processo di pace israelo-palestinese, la disaffezione dalla politica in Israele che va «al voto il prossimo 2 marzo per la terza volta in un anno, mentre in Palestina non ci si ricorda più dell’ultima volta in cui si è votato». Tutto ciò lascia intuire «che questo non è il momento dei grandi gesti: siamo in una fase di debolezza socio-politica, nella quale ci sarebbe bisogno di una politica forte e seria e di leader forti e convincenti che in questo momento non ci sono». Per questo, riflette l’amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme mons. Pierbattista Pizzaballa in un incontro promosso il 15 febbraio scorso a Vercelli dal Movimento ecclesiale di impegno culturale (Meic), «questo è piuttosto il momento dei movimenti e delle azioni dal basso, è il momento del territorio nel quale vediamo fiorire iniziative a partire dalle scuole, dalle parrocchie, dalle organizzazioni della società civile. È il momento nel quale incoraggiare qualsiasi azione che crei aggregazione, evitando la tentazione dello scoraggiamento e del dire: meglio non fare nulla perché tanto non cambia nulla».
Il contributo tipico dei cristiani
Il ruolo dei cristiani, anzi, «non è quello di fare ponti nel senso di far dialogare israeliani e palestinesi, poiché questo già lo fanno molto bene anche senza di noi». La missione della Chiesa – rimarca l’arcivescovo di origine bergamasca da trent’anni residente a Gerusalemme, dove è stato, dal 2004 al 2016 Custode di Terra Santa – è piuttosto quella di «stare dentro questo conflitto con uno stile cristiano, ovvero creando occasioni di incontro, di perdono, di gratuità, senza avere la presunzione di cambiare tutto. Entrambi i popoli stanno attendendo questo da noi».
Mediterraneo, mare nostrum o male nostrum? Di fronte alla domanda che, per iniziativa della Conferenza episcopale italiana, riecheggerà a Bari dal 19 al 23 febbraio tra una sessantina di cardinali, vescovi e religiosi della Santa Sede e di 20 Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, mons. Pizzaballa rimarca che «finché ci saranno diseguaglianze così marcate, con il 60 per cento della popolazione della sponda sud che ha meno di 29 anni e soffre un tasso di disoccupazione superiore al 50 per cento, il Mediterraneo non potrà che continuare a rappresentare una rotta alla ricerca della speranza».
«Noi cristiani – ha aggiunto l’arcivescovo – non cambieremo i problemi del Mediterraneo, ma intanto il primo passo è capire, acquisire uno sguardo di insieme sull’Africa e sul suo aumento demografico, sulle sue immense risorse energetiche, sulle ingiustizie e sfruttamento dei quali oggi vediamo purtroppo i risultati, sui problemi dello sviluppo sostenibile. Nella Laudato si’ il Papa lega indissolubilmente le ingiustizie sociali alla questione ambientale, e chiede nuovi modelli culturali nei quali integrare nuovi modelli economici. Com’è possibile che due miliardi di credenti nel mondo non abbiano nulla da dire su questi temi così cruciali per il nostro futuro? Abbiamo il dovere di studiare questi problemi per orientare il futuro».
L’orizzonte mutato
Interpellato dal presidente dell’associazione culturale Nova Jerusalem Norberto Julini su cosa resti dell’appello lanciato dieci anni fa con il documento Kairos Palestina. Un momento di verità, una parola di fede speranza amore dal cuore delle sofferenze dei palestinesi, firmato nel 2009 dai leader delle comunità cristiane presenti in Terra Santa, l’arcivescovo ha rimarcato che «oggi la situazione è completamente cambiata: oggi non scriveremmo più quel documento. La novità che Kairos Palestina ha rappresentato è stata dettata dal fatto che fino a quel momento a parlare del conflitto era patriarchi e vescovi, oppure la politica: in quel caso erano state le comunità cristiane a riunirsi, a riflettere, ad elaborare dal basso un appello nel tentativo di dire una parola in cerca di una soluzione; i leader religiosi di Terra Santa non l’hanno scritto, ma sottoscritto. Ora la situazione è completamente diversa: non si cerca più una soluzione perché non si crede più nella possibilità di cambiare le cose sul terreno. Tutti sappiamo che la pace non è a portata di mano, che ci vorranno molti anni e diverse generazioni per arrivare alla pace».
Basti pensare, ha aggiunto mons. Pizzaballa, che il cosiddetto «accordo del secolo» presentato dalla Casa Bianca il 28 gennaio scorso, ovvero «un piano unilaterale nel quale una parte sola dice all’altra cosa sono disposti a dare, ha provocato ben poche dimostrazioni fra i palestinesi. Non ci sono state proteste di piazza né quando Trump ha annunciato lo spostamento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, che è stata un’umiliazione fortissima per gli arabi, né quando è stato annunciato quello che [gli americani] hanno presentato come l’Accordo del secolo. Dobbiamo prendere atto che siamo in una fase nuova: l’elettorato israeliano negli ultimi 15 anni si è spostato a destra, con un cambiamento che è culturale prima ancora che politico, i palestinesi sono deboli e senza un leader, sanno che con l’espansione degli insediamenti, con tutti i cambiamenti territoriali e a livello politico che ci sono stati, con la disgregazione dell’ordine internazionale, il ripiegamento dell’Europa su se stessa e la disaffezione per la questione israelo-palestinese, non è più tecnicamente fattibile la soluzione bi-nazionale. Parlare di due Stati per due popoli oggi è uno slogan, nulla di più. D’altra parte, ci sono state due intifade e molti scontri negli ultimi trent’anni, con quasi 10mila morti, e non è stato ottenuto nulla; dunque non ci sono in questo momento le condizioni minime perché possa ripartire una rivolta, i giovani non sono disposti a morire per nulla. Non sto dicendo che ci sia rassegnazione allo stato di cose, tutt’altro, ma è un dato di fatto che manca il coordinamento politico per avere un movimento solido e articolato di dialettica politica nei confronti di Israele».
Occorre uno sguardo lungo
Secondo l’arcivescovo Pizzaballa, quello di cui oggi ci sarebbe forse bisogno non è un documento diretto a Israele e all’opinione pubblica internazionale, ma piuttosto agli stessi cristiani di Terra Santa. «Bisogna prepararsi a soluzioni di lungo termine: quello che forse dovremmo scrivere è un testo per i nostri fedeli, soprattutto per i più giovani, per riflettere insieme su come stare dentro questa situazione, di ingiustizia e di mancanza di diritti per una parte consistente della popolazione? Alcuni hanno diritti, altri hanno solo permessi. Sappiamo che questo stato di cose è profondamente ingiusto e non può durare, ma ahimè questa è la situazione che vivremo per molto tempo. Allora forse è tempo di dire che la nostra speranza non si fonda sulla liberazione dello Stato, ma su una esperienza di fede che deve essere determinata e lungimirante affinché la prossima generazione possa avere il desiderio, la visione di chi non vuole rinunciare ai suoi sogni per il futuro».
D’altra parte, ha aggiunto il presule, non mancano motivi di speranza nei «segni dei tempi» da cogliere oggi. «I movimenti pacifisti che un tempo erano forti, come Peace Now e altri, oggi sono afasici e sembrano non avere più presa sui cittadini: essi sono stati sostituiti da organizzazioni cross-platforms, ovvero movimenti espressione della società civile con musulmani, ebrei, cristiani oppure di israeliani e palestinesi, che si aggregano non a partire dalla politica – ha rimarcato Pizzaballa – poiché di questo nessuno ha più voglia di parlare, ma per fare qualcosa di concreto insieme. Penso a Hand in Hand, l’organizzazione delle scuole miste di israeliani e palestinesi, o a Bambini senza frontiere con lo scopo di far giocare a calcio insieme i più giovani dei due popoli, Commander’s for Israel’s Security che raduna oltre 200 colonnelli e generali israeliani in pensione che collaborano con i loro omologhi palestinesi su progetti di sicurezza, i gruppi di insegnanti ebrei e arabi che si associano per riscrivere i manuali scolastici di storia o di geografia, le donne musulmane per la non violenza a Hebron. Noi sappiamo che a breve o medio termine non ci sarà la pace, perché abbiamo troppi debiti da pagare e ferite da cicatrizzare. Eppure, queste associazioni creano relazioni, innescano processi dalla base. E questo ci dà tanta speranza».
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