Anche il Custode di Terra Santa, Francesco Patton, sarà a Bari dal 19 al 23 febbraio per partecipare all’incontro di riflessione e spiritualità Mediterraneo, frontiera di pace. L’iniziativa, voluta dalla Conferenza episcopale italiana (Cei), riunirà nel capoluogo pugliese 60 rappresentanti delle Chiese di 20 Paesi che si affacciano sul Mare Nostrum e vedrà la partecipazione di papa Francesco domenica 23 febbraio. Vescovi, sinodalità e concretezza sono le tre bussole che caratterizzano l’incontro di Bari, secondo quanto spiega il cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Cei.
Abbiamo chiesto al Custode di Terra Santa un di riassumere i temi che saranno al centro dei lavori con gli altri partecipanti all’evento ormai imminente.
Padre Patton, cosa prevede il programma dell’incontro di Bari?
L’idea è quella di approfondire cosa sta succedendo attorno al Mediterraneo. Ho ricevuto delle domande in preparazione all’incontro, a cui saranno chiamati a rispondere i vescovi. Il programma prevede preghiera, momenti di riflessione e poi tavoli di conversazione, con la presenza di più soggetti che dialogano attorno ai temi proposti.
La Custodia francescana di Terra Santa che tipo di presenza ha nel Mediterraneo?
Come Custodia siamo molto presenti nel Mediterraneo: Israele, Libano e Siria si affacciano su questo mare, Cipro e Rodi sono circondate dalle sue acque. Anche le nostre presenze in Italia si affacciano sul Mediterraneo (penso a Napoli e a Roma, che è molto vicina al litorale).
Siamo presenti sia nella parte della «frontiera sofferente» (Libano, Siria), sia nella parte della «frontiera più accogliente» (Rodi, Cipro e l’Italia). Operiamo però in contesti ecclesiali molto diversi. Nei contesti mediorientali ci troviamo a essere la minoranza che cerca di portare il suo impegno sia sul versante religioso che su quello sociale. Se parliamo dell’Italia, invece, la situazione è diversa, perché il cristianesimo non è una minoranza.
Che tipo di esperienza porterà all’incontro di Bari?
Cercherò di portare la complessità. Tutti noi abbiamo una grande fretta di ridurre la complessità a qualcosa di semplice e omogeneo, ma viviamo in realtà complesse. Paesi come Israele, Libano e Siria, tra di loro non hanno comunicazione e questa è già una complessità. Un altro elemento di complessità ulteriore riguarda le vicende recenti del piano di pace proposto dagli Stati Uniti. È una proposta che non tiene conto della storia, della cultura, della complessità. È un tentativo di semplificazione e il nome stesso «pace in cambio di prosperità» è uno slogan. È illusorio pensare che in cambio di una cifra economica si possa avere la pace. Non è realisticamente praticabile. La complessità non si può semplificare con un tocco di bacchetta magica, ma invece questa è una tentazione di oggi, culturale e politica. È una tentazione culturale perché la complessità disturba ed è difficile da gestire mentalmente. A volte è anche una tentazione politica, perché oggi si rincorre una comunicazione veloce, una comunicazione che salta sistematicamente il ragionamento e la riflessione, per parlare solo alla pancia delle persone. Ciò non favorisce lo stare dentro la complessità.
Vi è stato chiesto di interrogarvi su come «attingere ai tesori della spiritualità dei territori di provenienza».
Quando parliamo di Siria o Terra Santa in senso stretto, parliamo di luoghi dove è nato il cristianesimo e dove la spiritualità cristiana si è diversificata, anche attraverso la varietà dei riti che sono diventati poi Chiese. Parliamo di territori dove sono presenti anche le altre due religioni che fanno riferimento ad Abramo, nostro padre nella fede. Qui riappropriarsi dei tesori della spiritualità, significa anche fare lo sforzo di conoscere realtà, riti e fedi differenti. Per noi vuol dire anche qualcosa di ancora più concreto: vuol dire recuperare il significato dei luoghi che raccontano la storia della spiritualità biblico-cristiana e della spiritualità ebraica dell’Antico Testamento. Custodire, conservare e rendere accessibili i luoghi, vuol dire permettere ai cristiani locali di costruire la propria identità, a partire dalla loro storia. Significa anche consentire ai cristiani che vengono da tutto il mondo come pellegrini di attingere alla spiritualità dei luoghi e farsi un’idea concreta del Vangelo. I luoghi aiutano il cristiano di oggi sia ad evitare le spiritualizzazioni eccessive, sia le forme di cristianesimo disincarnato.
La Chiesa può aiutare a costruire la pace o la pace è un concetto politico?
Anche la pace è un concetto complesso. Esiste il concetto politico di pace, come sappiamo che fu la Pax Romana, la pace politico-militare portata attraverso la conquista da parte dei romani dei territori del Mediterraneo. C’è poi la pace che è legata alla politica e alla diplomazia, che si basa sul rispettare i patti, come diceva sant’Agostino.
C’è poi la pace che si colloca in ambito religioso. Per noi la pace è una persona: san Paolo dice chiaramente che Cristo è la nostra pace. Per noi il concetto di pace dunque non è un’idea di non belligeranza o di armonia. Proprio in questa terra, proprio a Betlemme e Beit Sahour, gli angeli hanno cantato: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace agli uomini che egli ama». C’è l’idea di una pace che discende dal cielo, non una pace come una semplice costruzione umana.
C’è poi una dimensione che tocca la relazione tra le religioni come elemento importante nella ricerca e nella costruzione di percorsi di pace. L’idea di papa Francesco è stata proprio quella di sottoscrivere (il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi) un documento (sulla Fratellanza umana), che di fatto è un patto, per far collaborare cristiani e musulmani per la costruzione di una società fraterna e pacifica. Sarebbe preziosissimo se questo patto fosse sottoscritto da tutti i leader religiosi del Mediterraneo cristiani, musulmani e delle altre religioni, tra cui l’ebraismo, con cui abbiamo un rapporto di parentela più stretto. Il contributo che possiamo dare è di spiritualità della pace, credere che la pace sia dono di Dio e per questo vada chiesta nella preghiera. Il nostro diventa così anche un ruolo di educazione alla pace.
Quali difficoltà vorrebbe condividere con i vescovi del Mediterraneo?
Prima di evidenziare le difficoltà credo sia importante evidenziare le risorse che ci sono. La stessa cosa può essere vista da due punti di vista, come nel caso della presenza dei nostri cristiani in Siria. Se guardo l’aspetto negativo, mi rendo conto che due terzi dei cristiani se ne sono andati. Ma se guardo l’aspetto positivo, capisco che quei cristiani che sono rimasti, hanno un forte senso di appartenenza alla propria comunità cristiana. Fanno parte di una piccola comunità che ancora desidera giocare un ruolo significativo.
Oppure se penso a Israele e Palestina, c’e il problema irrisolto di una pace stabile, di un reciproco e reale riconoscimento tra Israele e Palestina. Se guardo gli aspetti positivi, però, noto che la presenza cristiana in quei territori non è di serie B ed è significativa. I giovani cristiani in grande percentuale terminano gli studi universitari e un domani saranno parte di un gruppo, di un «lievito» per usare una parola evangelica. Se vedessimo solo gli aspetti critici e problematici, non avremmo la possibilità di coltivare la speranza.