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Beirut, la nuova primavera?

Angelo Calianno
19 febbraio 2020
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Beirut, la nuova primavera?
Beirut, le proteste antigovernative scuotono il Libano da ottobre (foto Angelo Calianno)

In un clima di tensione, l’11 febbraio il parlamento libanese ha dato la fiducia al nuovo governo guidato da Hassan Diab. Dopo mesi di proteste di piazza, mai del tutto interrotte, l’esecutivo deve affrontare emergenze e scontento di un Libano che chiede netti cambiamenti. Reportage da Beirut.


Gli accessi a piazza dei Martiri, centro della capitale libanese, sono chiusi. Decine di camion dell’esercito sono parcheggiati fin dalla mattina, all’interno dozzine di soldati. La strada del suq, la via dei negozi, invece, è presidiata dalla polizia. Il piano di sicurezza ha previsto la chiusura della maggior parte delle vie di accesso per frammentare i gruppi di manifestanti che si attendono in serata. Alle 21 assembramenti di persone cominciano a comparire da diversi punti, altri si riuniscono a un chilometro dalla piazza arrivando dalla zona del porto. I reporter sono schierati dietro le linee dei soldati che non consentono di avvicinarsi.
Cambiando posizione e percorrendo un paio di vicoli interni, raggiungiamo il centro della manifestazione. Migliaia di persone sono riuscite a radunarsi, nonostante gli ostacoli. La protesta parte con canti, cori e slogan. Tutto è pacifico, anche se gli scudi della polizia e dei militari si fanno sempre più stretti. A un certo punto è impossibile contenere la folla, parte la carica.
I militari sparano lacrimogeni che disperdono la parte più grande dei manifestanti, qualcuno correndo cade e viene preso a manganellate. I feriti sono trascinati fuori dal cerchio degli scontri dove ci sono le ambulanze. Le proteste però continuano, i manifestanti, ora sparpagliati, continuano a cantare, ma anche a lanciare sassi, bidoni dei rifiuti, tutto quello che trovano per strada. Militari e polizia proseguono nell’uso di lacrimogeni e nelle cariche con i manganelli. Gli scontri vanno avanti quasi tutta la notte.

Un Paese in rivolta

Dalla metà di ottobre le città del Paese dei cedri sono invase da folle che protestano e scene come quella descritta si sono ripetute innumerevoli volte. Il 17 ottobre il governo di Sa’d Hariri aveva annunciato l’aumento di alcune tasse, previsto per marzo 2020: tra queste, una sull’uso di WhatsApp, ma anche aumenti del costo di benzina, tabacco, elettricità. Questo piano di tassazione è stato solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso, perché gli ultimi due anni sono stati difficili per il Libano. Da allora, quasi ogni fine di settimana, i libanesi sono scesi nelle maggiori piazze di una sessantina di città, fino a contare 1,2 milioni di manifestanti, in una nazione che ne conta poco più di 6. Una mobilitazione senza precedenti.

Giorni prima dell’esplosione delle proteste una serie di incendi aveva colpito i boschi attorno a Beirut. Si è speculato molto su chi li avesse appiccati (sono stati incolpati anche i rifugiati siriani e palestinesi, che in realtà hanno aiutato a spegnere i fuochi). Ciò che gli incendi hanno dimostrato è stata l’inefficienza del governo: elicotteri pagati milioni di dollari erano rimasti a terra perché nessuno aveva provveduto alla loro manutenzione.
Nessuno investe più in Libano per i tassi bancari troppi alti. Il Paese ha 75 miliardi di debito pubblico (il terzo più alto al mondo, in rapporto al Pil) e un sistema di governo che non si è mai riformato, nemmeno dopo la guerra civile terminata nel 1990.

«Quello che accade oggi in Libano è il frutto delle politiche errate degli ultimi anni, soprattutto gli ultimi due – ci spiega Nizar Hassan, ricercatore che si occupa dei movimenti per i diritti dei cittadini e cofondatore del movimento Lihaqqi, uno dei primi a scendere in piazza –. Tutti hanno chiamato questa protesta “la protesta di WhatsApp”, ma in realtà è stata solo la scintilla. È vero, per molti WhatsApp è diventato l’unico modo per comunicare, perché per i più poveri le tariffe telefoniche sono troppo alte. Ma la corruzione è dilagante, i tassi applicati dalle banche sono altissimi, il risultato è che molte aziende hanno chiuso e chi può, soprattutto i giovani, cercano di scappare all’estero».

Rispetto al passato, però, la protesta in corso ha qualcosa di diverso: «Per la prima volta si sono unite diverse classi sociali – prosegue Nizar Hassan –. I poveri, sempre penalizzati, ma anche le classi medio-alte che, senza investimenti e con il cambio del dollaro così sfavorevole, non riescono più a mantenere il loro tenore di vita. La mobilitazione, anche nel numero, è stata una novità tutti».

Le manifestazioni non hanno portato solo singoli cittadini nelle piazze, ma anche diverse organizzazioni politiche: sono circa sessanta i gruppi che si sono mobilitati e continuano a organizzare e radunare gente, soprattutto grazie all’uso dei social media. Le richieste dei manifestanti sono state molteplici: debellare la corruzione, recuperando i soldi finiti nelle tasche dei corrotti, garantire libertà di azione ai giudici, una nuova manovra economica.

Il nuovo governo non piace

Il 20 dicembre il presidente della Repubblica, Michel Aoun, ha nominato il professore universitario Hassan Diab come primo ministro, incaricato di formare un governo tecnico. Il nuovo gabinetto comprende sei donne su venti ministri, è attivo dal 22 gennaio e con il voto di fiducia dell’11 febbraio è pienamente in carica. Ma il percorso di formazione di un governo che fosse visto come segno di discontinuità è stato molto accidentato. Diab è sostenuto da Hezbollah, per molti quindi è solo la continuazione di un sistema di governo settario, una delle ragioni principali di questa crisi.

Le proteste hanno assunto un tono più violento e la crisi si è acuita ulteriormente dopo la morte del generale iraniano Qasem Solemani, il 3 gennaio. La strada principale di Beirut è stata tappezzata dalle sue foto. La tensione internazionale, specialmente nel mondo sciita (in Libano quasi un terzo degli abitanti), ha soffiato sul fuoco del malcontento generale.

A metà gennaio, per la prima volta dall’inizio delle proteste, ci sono stati seri danneggiamenti a proprietà e negozi nel centro di Beirut. Vetrine rotte, bancomat distrutti, manto stradale frantumato per ricavarne sassi da lanciare contro la polizia. Alcune frange violente hanno sradicato porte e cancelli dei negozi usandoli come scudi contro gli idranti della polizia. Polizia e militari hanno sparato proiettili di gomma contro i manifestanti, provocando gravi feriti. Questo ha aumentato ulteriormente la violenza degli scontri e delle sassaiole. Ne è seguita una settimana chiamata dai giornali «The week of rage».

Cosa è cambiato nelle ultime settiname? I pareri sono discordanti: molti pensano che alcuni gruppi di manifestanti siano pagati da qualcuno per creare ulteriore instabilità. Le opinioni, ovviamente, sono in linea con le proprie idee politiche e spesso, con la propria religione, che in Libano spesso definisce il proprio gruppo politico di riferimento. Hatem (il nome è di fantasia) è un poliziotto che si trova spesso di servizio durante le manifestazioni. «Anche noi siamo in difficoltà – ci racconta –: molti poliziotti, ideologicamente, sono dalla parte di chi protesta e capiamo le loro ragioni, i loro problemi sono anche i nostri. Veniamo attaccati e cerchiamo di non rispondere, a meno che non sia strettamente necessario. Tanti di noi hanno fatto domanda per essere assegnati in altre stazioni o sulle montagne, pur di evitare gli scontri contro il nostro stesso popolo».

Hezbollah, tra sostenitori e oppositori

Ultimamente si notano gruppi, spesso isolati, di ragazzi che hanno semidistrutto i negozi, le strade. «Secondo me sono infiltrati di Hezbollah – sostiene il poliziotto –. Alcuni sostenitori del movimento politico sciita mesi fa hanno ingaggiato una battaglia contro i manifestanti che urlavano: “Hezbollah terroristi”. Penso che si siano infiltrati per sabotare i cortei. Se diventano violenti la risposta sarà dura, così si ripercuoterà contro i ragazzi che protestano pacificamente».

Di tutto altro avviso è invece Ahmad, operaio, di fede sciita: «Tutti usano sempre Hezbollah come capro espiatorio, ma penso che non c’entrino nulla. Se non fosse stato per l’opposizione di Hezbollah, Israele ci avrebbe già portato via tutte le risorse, come fece con l’acqua venti anni fa». Secondo Ahmad, quelli che provocano le distruzioni sono pagati da qualcuno nel vecchio governo, per ostacolare la formazione di quello nuovo.

«Il problema principale in questo Paese sono le banche – aggiunge –. Non ci sono soldi, non possiamo quasi più prelevare dai bancomat, i liquidi sono tutti nelle banche straniere. Contro quelle ci dovremmo ribellare. Per il momento stiamo sopravvivendo grazie al sostegno dei familiari, ci si aiuta a vicenda, ma presto anche quelle risorse finiranno».

Oltre a frange estreme, nelle piazze ci sono tanti anziani, donne, bambini. Le proteste non hanno portato solo gruppi di cittadini in strada ma anche diverse organizzazioni politiche. Una sessantina di gruppi si sono mobilitati e continuano a radunare gente.

Alla luce dei nuovi e violenti sviluppi, molti parlano di una possibile militarizzazione dello Stato. Di certo, quasi nessuno nelle strade sembra favorevole alla formazione di questo nuovo governo. In Libano, come in Iraq, le proteste chiedono fondamentalmente gli stessi diritti: basta corruzione, più equità. Per molti osservatori internazionali, in Medio Oriente si sta assistendo all’inizio di una nuova primavera araba.


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