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Il mondo perduto del sommacco

Paola Caridi
15 gennaio 2020
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Il mondo perduto del sommacco

Il sommacco è una di quelle spezie che costituiscono gli stessi pilastri dell’immaginario in Medio Oriente. Un tempo era molto presente anche nella nostra cucina mediterranea. Com'è che l'abbiamo emarginato?


Chissà se per comprendere questo Mediterraneo slabbrato e frammentato non si debba tornare indietro nel tempo. Chissà se non si debba tornare alla lingua comune perduta, fatta di oggetti, colture, modi di vivere e di lavorare, e – perché no? – di cucinare. Il destino degli uomini e delle donne, a ben guardare, va di pari passo con la sorte subita da piante e spezie, fatti salvi i grandi numi botanici. L’olivo, l’uva, il grano.

Che ne è, per esempio, del sommacco? Chi se lo ricorda? Eppure, l’arbusto ora considerato infestante era, per l’Italia, un piccolo tesoro dal punto di vista delle esportazioni. Quando le pelli si tingevano con prodotti naturali, il sommacco era fondamentale. Conteneva quantità elevatissime di tannino. Esistevano, ed esistono, tappeti ad ago che dal sommacco e dal suo colore hanno preso il nome, diffusi dal Marocco alla Turchia. Tappeti a cui si è ispirato, per le sue finestre, un genio come Frank Lloyd Wright.

Il migliore di tutti era il sommacco siciliano. Lo esportavamo in Inghilterra, ma anche verso gli Stati Uniti e la Francia. Nei primi decenni dell’Ottocento l’export di sommacco era subito dopo la voce «grano». I Florio, sì, proprio loro, i protagonisti dell’industria siciliana tra Otto e Novecento, avevano addirittura creato nel 1899 la Società per l’Esportazione dei Sommacchi di Sicilia. Avevano ridato dignità al prodotto (caduto in disgrazia perché veniva commerciato mescolando foglie di altre piante), avevano creato mulini per la macinatura e poi, in sostanza, controllato l’export italiano.

I vecchi contadini siciliani si ricordano bene del sommacco. Usavano le foglie dentro le scarpe, quando andavano in campagna, per assorbire il sudore. Ricordano anche i commercianti che arrivavano per comprare il raccolto.

Poi, più nulla. Il sommacco è divenuta adesso una pianta da sradricare perché infestante. Tutto il contrario di quello che succede appena si attraversa il mare, perché in tutta la cucina mediorientale il sommacco è una di quelle spezie indispensabili. Per le insalate, per i piatti di carne, per le minestre nella cucina iraniana, per il pollo in versione m’sakhan del menu palestinese. E lo si mette, tra gli altri, sullo hummus e sul mutabbal, due dei piatti indispensabili tra gli antipasti, nel Levante.

Il sommacco è ancora, insomma, una di quelle spezie che costituiscono gli stessi pilastri dell’immaginario, in Medio Oriente. «Nel suo sogno in frantumi, la terra è una tunica cucita da un ago di sommacco», scriveva Mahmoud Darwish in uno dei suoi poemi, mettendo la spezia acidula, così simile come profumo a quello del limone, accanto agli olivi imponenti, al grano, al melograno.

È un semplice dettaglio, il sommacco. Una polvere dall’affascinante colore rosso scuro, violaceo, evanescente perché è polvere eppure, allo stesso tempo, segno di una dimenticata sapienza diffusa, composta da uomini e donne senza nome che per secoli e millenni hanno usato modi simili di vivere. Di condurre un’esistenza spesso semplice e povera. Dov’è andato, dunque, il mondo perduto del sommacco? Perché saperi antichi sono andati alla deriva, verso un naufragio doloroso e ineluttabile, assieme alla nostra grammatica dello stare insieme?

L’oblio del sommacco è l’oblio delle relazioni, del commercio, del viaggio. È il segno di quello che non siamo più, e che dovremmo ricostruire con altri segni, contemporanei, nostri, e altrettanto forti.

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