Premiata in Italia una tesi di laurea sui cittadini più giovani del villaggio di Neve Shalom Wahat al Salam (in Israele). Le loro testimonianze raccontano le fatiche e gli slanci del crescere insieme, gomito a gomito, ebrei e palestinesi.
L’Istituto De Pace Fidei di Bressanone – organismo ecumenico e interreligioso per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato – ha assegnato quest’anno il Premio Vescovo Karl Golser a una tesi di laurea magistrale dedicata ai giovani della seconda generazione del villaggio di Neve Shalom – Wahat al Salam, l’Oasi della pace (questo il significato del nome, in ebraico e arabo) che sorge a metà strada tra Gerusalemme e Tel Aviv.
Il premio, che sarà consegnato ufficialmente il 29 gennaio 2020, è un riconoscimento significativo anche in tema di dialogo interreligioso. Rende omaggio a Karl Golser (1943-2016), teologo morale e poi vescovo di Bolzano-Bressanone, spiega don Paul Renner, direttore dell’Istituto. «Monsignor Golser è stato uno dei promotori dell’Istituto e tra i primi moralisti della Chiesa ad occuparsi sistematicamente di questioni ecologiche».
Autrice della tesi premiata, discussa all’Università di Bolzano, è Verena Massl, che nel 2016 ha condotto diverse interviste e incontri sul campo durante uno stage promosso dall’Associazione italiana amici di Neve Shalom Wahat al Salam. Dal suo lavoro sono tratte le riflessioni e le voci dei ragazzi che tra poco leggeremo. «Ho deciso – spiega Verena – di adottare un metodo partecipativo per la mia ricerca. Ho cioè coinvolto i giovani della seconda generazione sia nella scelta del focus sia nella concezione delle domande delle interviste. Mi hanno raccontato tante idee stupende che vorrebbero applicare in futuro, o già stanno realizzando, per una convivenza pacifica dei diversi gruppi in Terra Santa».
Un’esperienza unica
Ricordiamolo: il Villaggio – abitato da settanta famiglie, metà ebree e metà arabe – rappresenta qualcosa di unico, oggi, in Israele. È infatti la sola comunità nel Paese in cui ebrei e arabi, tutti di cittadinanza israeliana, vivono insieme per scelta. Così come insieme hanno deciso di far studiare i propri figli, dando vita a un asilo e una scuola elementare nei quali la parola d’ordine è: riconoscimento reciproco. Tutte le identità sono infatti espresse in modo paritario. S’insegna in ebraico e arabo, si studia la storia dei due popoli da entrambi i punti di vista, si festeggiano le feste di tutti. In sintesi, si conosce l’«altro».
I giovani di Neve Shalom – Wahat al Salam sono consapevoli di essere cresciuti in un luogo eccezionale. Una comunità in cui ci sono conflitti e dispute tutti i giorni, ma nulla in confronto al grado di tensione che si respira nel resto della Terra Santa.
Il Villaggio genera un forte senso d’identità, ma anche alcune «fatiche» non semplici da gestire, soprattutto quando si è molto giovani. «Ho iniziato a sapere cosa significhi veramente essere un palestinese perché sono cresciuto con il popolo ebraico», dice Mohammed, sedici anni. «So cosa mi distingue da loro. Se chiedi a un arabo che abita in un villaggio arabo per tutta la vita che cosa significa essere un palestinese, non saprebbe cosa rispondere, perché non lo sa. Non si può dire cos’è il bianco, se non si conosce il nero. Così, quando cresci solo con persone che sono diverse da te, comprendi ciò che significa essere chi sei».
Per tutti, il passaggio alle scuole medie e superiori – fuori dal Villaggio, separate per ebrei e arabi – è come una «bolla» che di colpo esplode. Portando con sé nuove sfide.
«Qui abbiamo imparato a conoscere il conflitto, ma tra noi non lo abbiamo percepito. Quando siamo andati nel mondo esterno, è stato come ricevere un forte schiaffo in faccia, perché abbiamo visto la realtà così com’è», commenta Noa, ebrea, vent’anni. E continua: «Ho compreso di aver ricevuto molto da questo tipo di educazione solo una volta cresciuta. Perché, mentre frequentavo la scuola del Villaggio, le cose che sono decisamente uniche ci sembravano naturali. Come aprire il quaderno e scrivere il tuo nome in entrambe le lingue. Come l’insegnante che ti parla solo in arabo e tu rispondi a volte in ebraico e a volte in arabo, o ricevere i regali a Natale… O andare a dormire a casa dei miei amici durante il Ramadan e svegliarsi alle 3 del mattino con la loro famiglia».
Fuori dal guscio
La maggior parte di questi ragazzi si sente però sufficientemente preparata ad affrontare il mondo fuori e a sostenere con grande fiducia le proprie idee. Sono forti abbastanza perché consapevoli della propria identità e abituati a considerare il conflitto da diverse prospettive.
«Uscire dal Villaggio è uno choc – conferma Nur, palestinese – ma quando sono passata alla scuola superiore mi sembrava di conoscere abbastanza della mia parte, dell’altra parte, della realtà. Ho sentito di avere molta fiducia nelle mie convinzioni. Non è qualcosa di comune per quell’età».
La bolla esplode una seconda volta quando, a diciotto anni, per i ragazzi ebrei arriva il momento di prestare il servizio militare. Alcuni decidono di unirsi all’esercito, altri rifiutano, altri ancora scelgono di fare il servizio civile. Si tratta di un passaggio molto delicato, «perché sei visto in modo negativo in ogni caso. Se rifiuti, tutto Israele ti considera un traditore. Se accetti, sono i membri di Neve Shalom – Wahat al-Salam a guardarti come un traditore, o qualcosa del genere», spiega Daniel, vent’anni.
«Quella scelta è stata una grande sfida per la nostra amicizia», ribatte il suo amico Ahmad, palestinese. «Ma, anche se non sostengo in alcun modo l’esercito e penso che non abbia alcuna morale, con il tempo ho imparato a capire la decisione di Daniel. Ho imparato a non essere d’accordo con essa, ma a capire da dove viene, e a rispettarla». Ed è già moltissimo.